Se ci guardiamo indietro niente sembra più spaventoso della scorsa primavera, eppure la sensazione che la fase di ritorno dell’epidemia sia più maligna e più devastante di quella precedente avanza in modo sempre più terrificante.
Il basso numero di tamponi nella prima fase ha nascosto una verità ormai chiara ed evidente: il virus non è più invisibile, vive tra noi in maniera capillare e massiccia. Fino a sei mesi fa sembrava che potesse toccare solo agli altri, che fosse un colpo di sfortuna, una colposa disattenzione, una questione di coordinate geografiche; oggi invece la maggior disponibilità di esami e di tamponi, eseguiti anche sugli asintomatici, ci racconta una storia completamente diversa.
Abbiamo tutti, ovunque in Italia, amici, colleghi, parenti in quarantena, positivi o in attesa di sapere di esserlo. E noi con loro. Non ci sono più focolai isolati, ma un unico esteso focolaio ben più infiltrato. Si ammala chiunque: i vip, i governanti, gli influencer e i vicini di casa; i nostri gradi di separazione dal virus sono spaventosamente diminuiti. Sentiamo tutti il suo fiato sul collo e anche chi non ha paura di stare male o di morire, deve farci i conti.
A marzo, nella paura, c’è stata coesione, cercavamo cure, soluzioni, conforto. Oggi le bandiere tricolore e gli striscioni arcobaleno sui balconi hanno lasciato spazio alle guerriglie in strada, alle discussioni sulle mascherine, alle folle negazioniste, alle liti sui treni e nei bar. Non siamo più compatti e atterriti da quella paura comune, ma nemici ostili e arrabbiati, a caccia di colpe e di colpevoli. Siamo un popolo sfilacciato, disunito e sgangherato. Eppure tutti ricordiamo la prima ondata: anziani lasciati soli in casa a morire, bombole di ossigeno mancanti, persone che arrivavano in ospedale con polmoniti in fase acuta e tamponi mai eseguiti.
I virologi, i professori e gli esperti continuamente interrogati si sono trasformati in oracoli inaffidabili, destabilizzanti e troppo spesso irresponsabili, più virali di ciò che dovrebbero studiare al microscopio. Si sono lasciati contagiare dal virus della TV, dall’esposizione mediatica, dalla fama; hanno tolto tempo e ore preziose al loro lavoro per lanciare messaggi incoerenti con quelli lanciati appena il giorno prima, battibeccando tra loro in diretta televisiva o sui social, perdendo tragicamente ogni autorevolezza agli occhi del pubblico. Assistiamo frastornati e basiti ai selfie compulsivi fatti da questi primari-rockstar nei principali ospedali italiani, come farebbero delle soubrette qualunque ospiti a Domenica Live. Il risultato è che in questo modo stiamo finendo col non credere più a nessuno.
La scienza che doveva salvarci è in totale balia del narcisismo accademico, presuntuoso e arrogante. I virologi politicizzati, quelli che minimizzavano, sono stati indubbiamente il male peggiore, soprattutto nella fase estiva, e oggi, anziché essere ignorati dai media, proprio per il loro essersi mostrati inaffidabili e pessimi profeti, continuano ad occupare colonne di siti di informazione e di giornali, continuando a sedere comodamente nei salotti tv, come se niente fosse.
Le vacanze estive e quel “liberi tutti”, colpevole e superficiale, hanno creato l’illusione che il peggio fosse ormai passato. Ci abbiamo creduto tutti. O quasi. Abbiamo creduto al clinicamente morto, al virus mutato, alle cariche virali diminuite, a tutto. Abbiamo viaggiato, ballato, brindato e ora ci ritroviamo, increduli, con un conto salatissimo da pagare, consapevoli che vacanze come le abbiamo vissute quest’estate non ci saranno più fino a tempo indeterminato.
I complottisti, i negazionisti, i no-mask in questi mesi hanno avuto tempo e modo di infestare il web (e i bar) di fante-teorie, ridicole e pericolose. Quando le bare di Bergamo sfilavano, tutti tacevano, ma non appena si è innescato il meccanismo di rimozione sono tornati ad infettare quella fetta di popolazione più irrazionale e narcisista, con ambizioni rivoluzionarie, purché le rivoluzioni non siano più impegnative che scontrarsi nei commenti dei post su Facebook.
Pensavamo di non rivedere più questi errori, questa trascuratezza; l’impreparazione della prima ondata era da tutti considerata un pensiero inconcepibile. Invece scopriamo che ancora una volta non siamo preparati, che la politica è rimasta immobile, che non si è pensato di prevenire il problema dei trasporti, di instaurare una rete territoriale capace di occuparsi dei malati in casa, di un piano razionale per gestire tracciamenti e quarantene.
Ci sentiamo increduli e traditi da una politica che ha pensato all’ondata delle elezioni regionali prima ancora che a quella del virus. La politica ha paura di decidere, perché teme l’impopolarità più dei morti e deciderà quando l’acqua sarà ormai alla gola.
Non sappiamo dove andremo, provati e stanchi come siamo, sopraffatti da questa costante sensazione di vivere soltanto nel tempo presente, angosciati nell’assistere alle opportunità future allontanarsi sempre di più.
In primavera potevamo lasciare che l’aria entrasse dalle nostre finestre. Oggi teniamo le finestre chiuse, il cielo è opaco, la pioggia riga i vetri delle nostre finestre: l’inverno è alle porte.
E sarà un inverno senza neve con cui giocare, senza ponti per viaggiare, senza programmi per Natale o Capodanno, senza una nuova stagione da vivere. Questo inverno ci scorrerà accanto, scaldati dal camino o dai termosifoni, scoprendo cosa vuol dire Natale senza parenti, senza regali da comprare, senza l’aperitivo con gli amici, la messa in chiesa, i bambini incantati da Babbo Natale al centro commerciale.
Martin Di Lucia
(da Fuori dalla Rete, Novembre 2020, anno XIV, n. 5)
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