Il Partito comunista un secolo fa in Irpinia. La nascita di un Partito meridionalista

di Paolo Saggese

Il Novecento è un secolo affascinante, non meno del secolo precedente. Un secolo che ha segnato la nostra Storia presente, ha cambiato anche il nostro destino. Ha continuato quel processo di nascita del “mondo moderno” tanto auspicato dal Francesco De Sanctis in chiusura della sua “Storia della letteratura italiana”.

Quel secolo di fermenti ha riguardato anche la nostra piccola patria irpina, che con i suoi uomini migliori ha accompagnato i processi ed è stata protagonista dei cambiamenti. Questi nuovi anni ’20 del Ventunesimo secolo ci richiamano centenari di eventi importanti, che hanno guidato la nostra storia.

Ci avviciniamo con gennaio 2021 al centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, con il Congresso di Livorno, a cui parteciparono anche alcuni esponenti del socialismo irpino, tra cui Ferdinando Cianciulli.

Per ricostruire la storia del Partito comunista italiano, dal secondo dopoguerra al 1989, abbiamo strumenti importanti tra cui i saggi di Annibale Cogliano, Fiorenzo Iannino e Federico Biondi. Ma molto ancora bisogna fare per ricostruire le origini di tale movimento politico negli anni venti del secolo scorso. Ad esempio, consultando un volume ponderoso di saggi meridionalisti di Antonio Gramsci, curato da Francesco M. Biscione (“Disgregazione sociale e rivoluzione”, Liguori, 1995), si apprende della penetrazione notevole del comunismo presso i contadini poveri di alcune regioni del Sud, anche grazie all’impegno meridionalista di Ruggero Grieco, di Giuseppe Di Vittorio e di Antonio Gramsci.

Venendo ad Avellino, da una “Relazione sui congressi federali di Avellino, Benevento, Foggia, Bari, Lecce, Taranto” (conservata presso l’Archivio del Partito comunista di Roma – Fondazione Gramsci) della metà degli anni ’20, Vittorio Flecchia, pur lamentando una organizzazione sporadica del Partito al Sud, sottolineava la situazione discreta di Avellino e della Puglia. La situazione della provincia di Avellino presenta tuttavia luci ed ombre, perché la leadership della federazione si ritiene poco efficace talvolta, perché controllata soprattutto dalla piccola borghesia, con una marginalizzazione dei contadini, che si ritenevano più pronti ad una azione di tipo rivoluzionario.

Dunque, questi documenti conservati negli Archivi della Fondazione Gramsci smentiscono la tesi secondo la quale il Partito comunista al Sud e ad Avellino fosse nato per importazione dei confinati che furono inviati in provincia negli anni ’30. Già subito dopo la sua nascita, il PCdI aveva conosciuto una penetrazione anche in Irpinia, una vita semiclandestina e poi clandestina durante il fascismo. Si tratta di una storia tutta da scoprire, che potrebbe anche presentare qualche importante novità storiografica.

Le ragioni del successo del Partito al Sud risiede nel carattere meridionalista del Partito.

Una delle più importanti novità rappresentate dal Partito comunista fu sicuramente l’aver tentato l’unificazione del popolo italiano intorno ad un progetto politico comune, che allora era descritta con espressioni che richiamavano la rivoluzione comune degli operai del Nord e dei contadini del Sud.

L’intuizione, che soltanto riunendo in un unico partito e attorno ad un unico programma il popolo italiano oppresso dalla borghesia industriale del Nord e da quella agraria del Sud, si sarebbe potuta compiere la rivoluzione ideale incarnata dal Risorgimento era comune a molti giovani rivoluzionari, alcuni ispirati dal Magistero di Gaetano Salvemini, e che nel corso degli anni ’20 del secolo scorso fecero conoscere all’Italia le loro nuove idee. Alludo ai vari Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Ruggero Grieco, Giuseppe Di Vittorio, Guido Dorso, Tommaso Fiore …

La rottura con i socialisti e la nascita del Partito comunista d’Italia, in occasione del Congresso di Livorno, furono occasionate non soltanto da ragioni squisitamente ideologiche, ma anche dalla differente interpretazione della storia d’Italia e dagli interessi economici in gioco in quegli anni. Il Partito socialista, come aveva osservato e compreso con la genialità sua propria Guido Dorso, con la sua impostazione operaista aveva cementato gli interessi degli industriali e degli operai del Nord a tutto danno delle popolazioni e dell’economia meridionale. Tale limite del partito, che diveniva strumento della conservazione, non poteva non balzare agli occhi di un intellettuale rigoroso, che, tra l’altro provenendo dalle povere aree rurali della Sardegna, e considerandosi un meridionale, era particolarmente sensibile al carattere antimeridionale delle politiche economiche dello Stato unitario.

A rileggere gli interventi di Gramsci scritti a partire dal 1916 risulta chiaro come la questione meridionale intesa come questione nazionale fosse al centro dei progetti politici dell’intellettuale e che la prima grande diversità tra il Partito socialista e il nascente Partito comunista consistesse nel carattere antimeridionalista del primo e meridionalista del secondo. Basta leggere l’articolo “Il congresso di Livorno” (“L’Ordine Nuovo”, 13 gennaio 1921, a. I, n. 13, editoriale) non firmato, ma attribuito a Gramsci, in cui si accusa il capitalismo italiano di aver “soggiogato le campagne alle città industriali” e di aver “soggiogato l’Italia centrale e meridionale al Settentrione”. Il carattere meridionalista del nuovo partito è dichiarato esplicitamente subito dopo: “È certo che solo la classe operaia, strappando dalle mani dei capitalisti e dei banchieri il potere politico ed economico, è in grado di risolvere il problema centrale della vita nazionale italiana, la questione meridionale”.

Come ben si comprende, per l’ideologo comunista la questione meridionale è chiaramente “la” questione nazionale e si inserisce all’interno di una complessiva “Rivoluzione mondiale”. La questione meridionale e la diversità di visione tra comunisti e socialisti dei problemi del Sud sono la ragione principale della scissione: “Il distacco che avverrà a Livorno tra comunisti e riformisti avrà specialmente questo significato: la classe operaia rivoluzionaria si stacca da quelle correnti degenerate del socialismo che sono imputridite nel parassitismo statale, si stacca da quelle correnti che cercavano di sfruttare la posizione di superiorità del Settentrione sul Mezzogiorno per creare aristocrazie proletarie, che accanto al protezionismo doganale borghese (forma legale del predominio del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive nazionale) avevano creato un protezionismo cooperativo e credevano emancipare la classe operaia alle spalle della maggioranza del popolo lavoratore”.

Per queste ragioni, il Partito, unendo anche nel simbolo operai e contadini, riuscì a parlare ai poveri braccianti del Sud, un secolo fa.

Paolo Saggese

(da Fuori dalla Rete, Dicembre 2020, anno XIV, n. 6)


(Foto di copertina: storica insegna della Sezione di Bagnoli Irpino del Partito Comunista Italiano, dedicata ad Aniello Di Capua).


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