E alla fine eccoci qui. È accaduto quello che fino all’altroieri generali pluridecorati, esperti di geopolitica internazionale e persino l’uomo più potente del mondo ci avevano giurato che sarebbe stato impossibile: i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, vent’anni dopo l’ultima volta.
Gli americani avevano promesso di “esportare democrazia” e diritti, come sempre, ma si sono dimenticati di costruire uno Stato. E così, è bastata meno di una settimana di avanzata talebana per cancellare vent’anni di vere o presunte missioni di pace e cooperazione internazionale.
Dietro di sé, accanto alle macerie di una guerra infinita, hanno lasciato al proprio destino milioni di donne afghane, le vere vittime dell’intera vicenda, che da domani si ritroveranno imprigionate in un burka che non conoscono e non riconoscono. Loro, le ventenni di oggi, le laureate di domani, appena nate quando nel 2001 il regime talebano indietreggiava fin quasi a scomparire dalle città e dalla capitale Kabul. Loro che si erano faticosamente riprese spazi che decenni di regime talebano aveva cancellato, riconquistando la parità tra sessi in Costituzione (2004), una legge nazionale contro la violenza di genere (2008), l’abolizione del delitto d’onore. Loro che, almeno nelle grandi città come Kabul ed Herat, si erano conquistate la libertà di indossare abiti occidentali o il semplice velo, frequentare l’università, accedere ai più alti livelli di istruzione e professionali, candidarsi ed entrare in Parlamento.
Tutte cose che qui da noi consideriamo più o meno scontate e che in Afghanistan sono state il simbolo di una nuova primavera femminista. E che, da domani, rischiano di essere azzerate dalla sera alla mattina.
Mentre avanzano, i talebani entrano casa per casa portando via tutte le donne sopra i 12 anni, considerate “bottino di guerra”. Stilano liste delle donne single da dare in moglie ai combattenti. I ritratti delle donne hanno incominciato a sparire dai muri e dai cartelloni delle città perché considerati “scandalosi”. Decine di migliaia di studentesse rischiano di dover abbandonare l’università e, con essa, ogni speranza di carriera, cultura ed emancipazione, e lo stesso le donne mediche e infermiere negli ospedali di Emergency e delle ong straniere.
Quando parliamo di Afghanistan non parliamo genericamente di missioni, fallimenti, crisi geopolitiche o scacchieri internazionali.
Parliamo delle vite, dei corpi, della storia di questo esercito silenzioso e non armato di donne giovani e meno giovani che si ritrovano a dover scappare di notte dalla propria casa, con mezzi di fortuna, a rischio della propria vita, solo per poter avere la libertà di essere quello che sentono o decidono di essere.
Ricordatevi di queste donne – come di questi uomini e questi bambini – Ricordatevi le dichiarazioni di chi a parole oggi le difende e le strumentalizza contro i talebani e che, domani, una volta profughi o richiedenti asilo, sarà disposto a vederle morire di freddo o fame in qualche campo di concentramento o respinte da un muro o un filo spinato a una frontiera.
Perché è questa la scelta che attende loro: essere negate come esseri umani in patria o respinte da esseri inumani in casa d’altri, magari la “nostra” casa, quella dei “buoni”.
Oggi, più ancora di ieri, chiunque creda nei diritti e nella libertà, sta dalla parte delle donne afghane.
Se volete una causa degna di essere (davvero) combattuta, non esiste oggi nessuna causa più giusta, più degna di questa.
Lorenzo Tosa (Nextquotidiano.it)
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