Tutto si dice, tutto si scrive, e nulla si trasforma. Immutabile e miserrima condizione, costretta imperitura a rincorrere traguardi di personali tornaconto, l’uomo che si misura con la politica locale è indistintamente e prima di tutto uomo di affari, in particolar modo dei suoi affari. Condizione questa trasversale, è a Bagnoli Irpino predominante perché il bagnolese ha tra le proprie prerogative, più che altrove, quelle della venalità: persone perlopiù benestanti, aspirano ad una spropositata, eterna e immorale ricchezza senza nessuna remora etica, senza nessun tentennamento della dignità, spudoratamente e cinicamente fino alla meta.
Certo, ognuno nella propria esistenza arriva ad un grado di senso della esistenza stessa, solo che da queste parti il senso dell’essere e del suo vissuto si misura solamente in proprietà, depositi, buoni, “lu posto fisso”. Conta poco se poi non hanno mai nulla da dire o stanno al mondo interrogandosi su di sé e sul senso delle cose come si interroga un gambero su uno scoglio, d’altronde non ne avrebbero nemmeno il tempo a dire il vero, indaffarati nell’unica arte conosciuta, quella dell’accumulo.
Ora torneranno ancora, riemergeranno a breve dalle tenebre dei loro spaziosi e ombrosi palazzi alle luci della piazza e dei palchi, con facce vecchie e tronfie, con i soliti insulsi slogan: insieme, uniti, e altre cagate simili per Bagnoli. Questi stanno insieme e sono uniti da un concetto deviato di politica, una nobile arte del fottere.
Dopo anni trascorsi a osservare carovane di inetti alla gestione della cosa pubblica, dal paese prima e poi da fuori da qualche anno, credo che un commissario è quasi il massimo che potrebbe desiderare in questo momento il paese. Se il comune è una mammella da poppare, meglio non avere poppanti bagnolesi in prossimità dei suoi capezzoli, meglio un commissario perpetuo. Certo, non si può, e allora che riprenda la carovana, il circo dei “dobbiamo rilanciare il Laceno”, delle frasi che ti tolgono le forze come una ondata africana estiva di 45 gradi all’ombra, che riprenda vita il teatrino con il corpo di esseri umani e le teste di mostri sbavanti, menti mai accese che solo rispondono all’input dell’odore e del richiamo dei propri affari come un cane di Pavlov risponde al suono del campanello che rimanda allo stimolo del cibo.
Andate e fate, incominceremo a ridere per non piangere e continueremo, sempre più numerosi, da lontano. Guarderemo una foto del paese come ad una foto di un caro estinto, con la stessa mestizia e trasporto, ma dopo un po’ torneremo alle nostre vite, in altri paesi lontani. Bagnoli sarà il caffè buono non gustato altrove, sarà il campeggio estivo, un sentiero thriller in montagna con cani rabbiosi, una partita a calcetto con i vecchi amici, in pratica un villaggio vacanze estive nemmeno scelto, dato per nascita.
Ed è qui che si incastra, pateticamente, la questione del “chi rimane e chi va via”, e di chi è meglio di chi, di un presunto coraggio degli uni o degli altri. Innanzitutto l’uso, anzi, l’abuso delle parole, “coraggio”: quale coraggio serve per fare l’una, rimanere, o l’altra, andarsene. Sono rimasto e sono andato via, e nessuno come me credo sia andato per oceani in tempesta per mesi su un gommone per poi approdare in Cile a lavorare in miniera 12 ore al giorno, nessuno come me di quelli rimasti in paese è rimasto vittima di agguati sotto i lecci della piazza sfidando la malavita organizzata o sia morto di stenti all’ombra di “Piscacca”.
Se vogliamo morire di retorica raccontiamoci epiche storie di emigranti o fantasiose ricostruzioni di residenti che rimangono e resistono oltre ogni rischio, carestia e sofferenza; se vogliamo essere seri diciamo pure che ognuno decide di rimanere o di andare in base non all’amore incondizionato che prova per il proprio paese, piuttosto secondo un ragionamento molto meno romanzato e sentimentale, ossia “dove e come sto meglio?”. Ecco, perché se non vi è chiaro, chi resta, chi va via, chi amministra, chi scrive, chi legge, ciascuno mette davanti, per mera attitudine umana, il benessere personale, antepone l’io, il me, che però nel campo della politica dovrebbe, secondo le consuetudini valoriali, secondo i suoi principi cardini, anteporre il noi. Perché non lo fa? Semplicemente perché la politica è un’altra cosa, è arte nobile, e le nostre sono solo persone, persone banali con patetiche ambizioni personali banali, aggrappate al vespaio del comune ronzano ostinatamente da tempo, operaie del dorato miele marcato “dove e come (io) sto meglio?”.
Il comune, il paese, sono solo luoghi di passaggio sui quali ricade una imponente quantità di retorica, propaganda e sciocchezze. La verità è molto più semplice di come la si sente in giro: al comune del paese si ripropongono i soliti ambiziosi da febbre dell’oro, e nel paese si resta o si va via secondo convenienza. Siamo questo, il resto è narrativa, epica, romanzo.
Se in un cambiamento si vuole sperare per il nostro paese, durante tutto questo incessante tran tran di giovani che vanno e giovani che rimangono, in ottobre sarebbe lecito e auspicabile assistere non solo alla caduta delle castagne, ma soprattutto alla caduta definitiva dei soliti ricercatori di gloria senza scorza, alla caduta risolutiva degli sciacalli che da decenni si avventano sulla carcassa esamine del paese.
Una potatura della pianta che dia finalmente nuovi e rigogliosi frutti, nuova linfa, una nuova vita che si traduca in una nuova etica, nuove capacità e nuove competenze, una nuova gestione della cosa pubblica, una rinnovata umanità. Questi germogli dovranno avere il volto delle persone nuove, gente mai vista prima entrare al comune se non per rinnovare la propria carta d’identità: questa l’unica possibilità che abbiamo, l’ ultima carta rimasta al paese per potersi salvare, o per poter salvare almeno la faccia.
La caduta degli “dei” e magari delle castagne, la caduta dal nord del rimpatrio dei tanti giovani emigranti, per una nostra e piccola e personale “rivoluzione d’ottobre”.
Alejandro Di Giovanni
(da Fuori dalla Rete, Agosto 2021, anno XV, n. 4)
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