Ritorno al Medioevo

di Antonio Cella

Siamo ridotti ormai come un castello diruto che, di fuori abbellisce il panorama e, dentro, alloca lo squallore.

Avevamo alberghi, ristoranti, osterie, istituti credito, cinema e un notevole flusso turistico composto sia da bagnolesi di ritorno dall’estero che, (e soprattutto), da amanti del paese,  giunti da ogni parte d’Italia, per sanificarsi il fisico e il pensiero svuotandolo dalle preoccupazioni e facendo incetta dell’aria salubre e del buon cibo; amanti del paese, che nelle giornate estive trascorrevano volentieri le loro lunghe serate avvolti nella frescura dei lecci sorseggiando caffè o un innocuo boccale di birra; famigliole composte non soltanto da adulti ma da bambini festosi che finalmente potevano abusare della loro libertà e ignorare i richiami di qualche mamma ansiosa, protettiva, che sventola  il loro pullover a mo’ di bandiera affinché accorano ad indossarlo. Nei paesi di montagna, le serate estive, sono quasi sempre avvolte da una patina di umidità. 

Era la festa degli abbracci e delle pacche sulle spalle. Ricordi lontani che ancora mi emozionano e mi domandano: esiste ancora l’amicizia? E mi sovviene quel passaggio del Vangelo di Giovanni che parla appunto dell’amicizia, che evidenzia la profondità di affetto tra persona a persona che, a volte, si trascina fin dalla infanzia: “Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per gli amici”. A quei tempi, l’amicizia non era composta soltanto da empatia e giovialità, era un rapporto nato dal reciproco affetto, da una scelta che teneva conto della conformità dei voleri, da affinità di caratteri e da una prolungata consuetudine. Oggi, non più. Non abbiamo tempo da dedicare all’amicizia. Sarà forse anche colpa della pandemia e della guerra, che stanno uccidendo il volto dell’amore, non quello dell’attrazione dei sensi, beninteso. L’amicizia ha perso i suoi valori: nessuno muore più per un amico. Anche se qualche strascico di rispettoso affetto rimane ancora vivo.  

L’istituto di credito presente all’epoca nel paese era la mitica BANCA POPOLARE DELL’IRPINIA, accorta custode, all’inizio della sua nascita, degli spiccioli delle famiglie più abbienti (la maggioranza dei risparmiatori locali, proprio per la caratteristica dei frequentatori dell’istituto facenti capo al sunnominato ceto sociale, optava, per non accomunarsi con la citata élite, verso la custodia dei beni cartacei nelle casseforti dell’ufficio postale) categoria in fermento agli inizi degli anni ottanta per l’aumento nelle famiglie locali, delle figure di professionisti, delle aziende, e delle scuole pubbliche e private, nonché dei commercianti di castagne (investimenti annui presunti riconducibili al periodo anti cinipide di circa 2 milioni di euro), delle entrate di entità considerevoli rivenienti dalle fastose sagre del tartufo e della castagne; delle rimesse degli emigrati di terre lontane (Venezuela, Canada, Belgio, Svizzera); dei prodotti della terra che, a partire dal dopoguerra, venivano coltivati in quantità abnormi sul pianoro del Laceno e della pastorizia, che approfittò dell’import favorevole dall’Australia di latte in polvere ad uso mangime per animali da pascolo che, con l’ausilio di un altro intruglio nominato “pasta di Milano”, veniva trasformato in formaggi e latticini, che, difficilmente, gli Uffici di Igiene e Profilassi riuscivano a non classificare come prodotti nocivi alla salute pubblica ma “derivati dal latte al 50%”. Non è soltanto il contadino ad avere scarpe grosse e cervello fino. Con questo macroscopico intruglio, arriva anche il benessere e la ricchezza per centinaia di famiglie irpine e laziali, dove gli uffici regionali pensarono bene di decretare la colorazione in rosso della farina incriminata. In ogni paese, il cinquanta per cento degli indigeni addetti al settore, trasformava la farina di latte in probabili latticini. Ricordo che uno degli “scienziati” (è soltanto un eufemismo) adibiti a questo tipo di lavoro che, casualmente, incontrai in una via di Napoli (era addetto alla consegna di ricotte fresche ai negozi specializzati della città) mi raccontò che, in occasione della Pasqua, il suo laboratorio aveva pensato bene di produrre delle ricotte lavorate col latte buono delle loro pecore da regalare agli esercenti. E così fu. Quando, dopo la festa, ritornò dal salumiere, fu redarguito energicamente: “la ricotta che mi hai regalato per la Pasqua, l’ho dovuta buttare perché era un’autentica schifezza”

E’ vero, la forza dell’abitudine (nel caso di specie) crea dipendenza e svilisce anche il gusto, il piacere di assaporare prodotti similari fatti con ingredienti non sofisticati. 

Poi, arrivò il terremoto dell’Ottanta e, con esso, anche la metamorfosi e l’arricchimento della Banca Popolare dell’Irpinia che, con la casa madre di Avellino avevano dato alloggio, nel 2010, a svariate decine di miliardi di euro disposti dallo Stato per la ricostruzione post-sisma dell’Irpinia e altre regioni interessate. E così, da semplice bancarella diretta originariamente ad agevolare il credito di agricoltori, artigiani, e piccoli commercianti, si era trasformata in  mercant bank, banca d’affari di alto livello, capace di tener testa finanche al Banco di Napoli che, più tardi, entrò in criticità. Non credo proprio che la Bper Banca, che ha raccolto le sue vestigia con altre società bancarie, tra cui la Banca Popolare di Ravenna ndr, si sarebbe associata alla Popolare dell’Irpinia se quest’ultima non avesse avuto i forzieri pieni. Le banche, quando si associano, guardano soprattutto alla stabilità finanziaria di chi chiede la fusione. Ed è giusto che sia così.

Ma, lasciamo da parte i numeri: con loro ho giocato per 34 anni negli uffici della Regione Campania e, abusarne, fa male. Ritorniamo a Bagnoli. Quello che fa rabbia a buona parte dei cittadini è il sapere che tra qualche giorno non potranno più usufruire della comodità di effettuare prelievi dal bancomat di Via Roma. E’ una ulteriore batosta per gli avventori turistici che a fine settimana arrivano a migliaia dalla Campania  e dalle Puglie. E’ un ulteriore passo verso il degrado di un paese che vive di turismo.

Sono accadimenti che intristiscono anche gli indifferenti. Tristezza che già abbonda nel cuore di tutti noi per i ben noti motivi che ci impediscono anche di seguire i telegiornali, che fanno largo uso delle disgrazie altrui pur di fare share. Non parliamo, poi, dell’assillo delle mogli e delle madri che appena alzato dal letto e infilate le scarpe ai piedi t’investono con occhi spiritati: “ti sei lavato le mani? Hai toccato lacci e scarpe!”, “Non ti stropicciare gli occhi”!. E poi, una volta aperto il giornale, t’impatti con la ingenuità di papa Francesco che lancia i suoi scialbi appelli ai responsabili della guerra in Ucraina: “Basta! Ci si fermi! Si tratti seriamente per la pace!…”E’ giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia”. Francesco, sa bene che le trattative sono quasi sempre compiute da organi plenipotenziari degli Stati per determinare le norme di un trattato bilaterale o giù di lì: possono mai essere poco serie? A che serve gridare i suoi messaggi alla gente semplice e impotente quale siamo noi? Perché non si rivolge direttamente a Putin portandosi in processione al Cremlino e gridargli in faccia la sua maledizione? 

Papa Giovanni XXIII ha vissuto questa esperienza pur non facente parte degli organi trattanti quando, nel 1961, gli americani invasero arbitrariamente la “Baia dei Porci”, di pertinenza dell’isola di Cuba, con la quale avevano interrotto le relazioni diplomatiche subito dopo che Fidel Castro aveva deposto dal potere Fulgenzio Batista e, nel contempo, per pararsi il culo, aveva fatto impiantare in Turchia migliaia di missili balistici.  Operazione che irritò il Segretario del PCUS, Nikita Chruscev che, in accordo con Fidel Castro, pianificarono l’istallazione a Cuba di missili sovietici per far da avamposto agli attacchi USA.

All’epoca gli USA facevano parte, come ora, della Nato e L’Unione Sovietica del Patto di Varsavia. Un eventuale scontro tra i contendenti, avrebbe significato guerra atomica (come dice Biden col suo sorriso di sguincio, che pare volesse dire: “Mica so’ pazzu!”, per evitare di fare la brutta figura dell’Afganistan), senza né più né meno. Già si parlava dell’imminente scoppio della terza guerra mondiale. Se non fosse stato per Papa Giovanni, le cose si sarebbero messe davvero male. Vi riporto un frame del suo intervento: ” Mano sulla coscienza. Ascoltiamo il grido angosciato che, da tutte le parti della terra, dai bambini innocenti agli anziani, dalle persone alle comunità, ascende al cielo. Pace! Pace! …Preghiamo tutti i governanti di non rimanere sordi a questo grido di umanità”. 

Karol Wojtyla fu ancora più incisivo. Ebbe un ruolo di primaria importanza nella fine della Guerra fredda e nel crollo del regime sovietico.  Un ruolo da protagonista all’interno dello scontro tra Est e Ovest. Lui, il polacco, è stato uno degli autori della spallata finale all’Urss; il colpo che ha fatto crollare nel secolo scorso (9.11.1989) il muro di Berlino e il traballante impero sovietico, scomponendolo in zone autonome che ora Putin sta tentando di riallacciare (per donarle agli zar di tutte le Russie) con il collante della prepotenza. La storia nel suo astrattismo è pur sempre “storia” di uomini”. Non pensiate che lui non conosca la clemenza e la potenza di Dio. Lui, sfidando gli innocenti sotto le bombe di Mariupol  e di Chiev sfida tutti i giorni l’Onnipotente nelle figure di donne, uomini e bambini, i nostri Dio  viventi. Karol Wojtila è stato implacabile verso le istituzioni e verso i potenti dell’epoca e, al tempo stesso, è stato misericordioso nel perdonare chi aveva attentato alla sua vita.

Non bastano invocazioni e stimoli da parte della Chiesa: occorre anche azione.

Antonio Cella 

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