Alla riscoperta di Andrea dell’Aste

di Federico Lenzi

Traduciamo e pubblichiamo una ricerca realizzata da Robert Enggass nel 1961 per il “The Burlington Magazine”, la più antica rivista anglofona di belle arti. Enggass fu professore presso la Pennsylvania University e pioniere nello studio del barocco italiano oltreoceano. In questo suo scritto, cerca di tracciare una biografia del bagnolese Andrea D’Asti ed un catalogo completo delle sue opere. Sfortunatamente le guide locali indirizzarono lo studioso americano verso Bagnoli (NA), limitando il suo lavoro alle opere realizzate ad Avellino, Amalfi e Napoli.

Andrea Dell’Aste (I673 – 1721)

Il ricco campo della pittura barocca napoletana comincia solo ora a ricevere un’attenzione adeguata. Ancora oggi ampie aree rimangono inesplorate e oscure. Un caso eclatante è l’arte di Andrea dell’Aste (I673 ca. – 1721). Nonostante la qualità delle sue opere, il nome di Andrea dell’Aste è praticamente sconosciuto al di fuori di Napoli. Finora nessun articolo a lui dedicato è mai apparso in una rivista di storia dell’arte e, per quanto ne so, solo uno dei suoi dipinti è stato riprodotto. Non c’è da stupirsi, quindi, se non sappiamo nemmeno come si scrive il suo nome. L’ho visto come: d’Asta, d’Aste, d’Asti, dell’Asta, Dell’Aste, Dall’Asti (gli ultimi due dello stesso autore nello spazio di due pagine) e persino d’Hasta. L’artista stesso firma i suoi quadri: d’Aste, D. Aste, d.Aste. Quest’ultima forma, apparentemente un’abbreviazione, è la più comune. I pochi eventi che segnano la carriera poco movimentata di dell’Aste li raccogliamo principalmente dalla biografia di De Dominici. Nacque intorno al 1673 a Bagnoli, un piccolo sobborgo costiero di Napoli. In gioventù lavorò nella bottega di Francesco Solimena, dove sappiamo che eseguì copie dei dipinti del maestro e ne assorbì lo stile. Seguì un viaggio a Roma, dove secondo De Dominici studiò “le divine pitture di Raffaello, e quelle del Domenichino”, ma certamente anche artisti pienamente barocchi come Cortona e Lanfranco. La sua carriera sembra essersi sviluppata lentamente. Non abbiamo notizie di opere indipendenti di questi primi anni, né a Napoli né a Roma. Solo al ritorno a Napoli, nei primi anni del Settecento, emerge come personalità indipendente. Ebbe la fortuna di ricevere l’incarico di dipingere quattro enormi tele sulla vita di Sant’Andrea per il Duomo di Amalfi. Il successo fu immediato. Da questo momento in poi non mancarono mai commissioni importanti per pale d’altare e affreschi nelle chiese napoletane. Stava entrando in una nuova fase, con uno stile più leggero e morbido, come decoratore di palazzi napoletani, quando le infermità che tormenteranno la fine della sua vita lo sopraffecero. Morì per un’infezione polmonare all’età di circa 48 anni. Lasciò un allievo di un certo rilievo, Matteo Siscara (1705-65).

Molti dipinti dell’Aste sono andati distrutti durante il bombardamento di Napoli nell’ultima guerra, come indica l’elenco delle opere perdute alla fine di questo articolo, e non è più possibile fornire un quadro completo del suo sviluppo artistico. Forse la sua prima opera, prima ancora del ciclo amalfitano, è la Vergine col Bambino che appare a Sant’Orsola e alla Maddalena nel Carmine Maggiore di Napoli. L’impronta del Solimena è evidente, soprattutto in motivi come il manto svolazzante della Vergine e il grande colonnato posteriore. Ma dal barocco classico, lo stile con cui Maratti dominava la scena artistica romana di fine secolo, Dell’Aste trasse la sua composizione quasi statica con l’enfasi sulla simmetria bilaterale, che sarebbe stata un anatema per Solimena. Nonostante questa qualità romana (o addirittura bolognese), rimane un sapore di Napoli, soprattutto nella scelta di tipi spagnoli per la Madonna e il Bambino, e nelle tonalità cupe e tetre, ma napoletane in senso arcaico: la Napoli di due generazioni prima. Con le quattro enormi tele sulla vita di Sant’Andrea, dipinte tra il 1703 e il 1710 per il Duomo di Amalfi, Dell’Aste emerge per la prima volta come artista maturo e di grande vigore. Da Cortona a Solimena arrivano le ardite composizioni barocche: molte figure in massa disegnate rapidamente in diagonali e spirali. Ma la tavolozza scura, le ombre profonde piene di tumulto e di dramma lo riportano direttamente all’opera di Mattia Preti.

Nel 1705, per la volta della Cappella dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento nella chiesetta napoletana di Santa Maria dell’Avvocata, Andrea realizza un ciclo di affreschi sulla vita della Vergine. Per i ritmi forti e i toni prevalentemente scuri, queste opere appartengono ancora alla prima fase dell’artista, anche se la sua tavolozza si è un po’ schiarita. Sebbene oggi gli affreschi siano in rovina, contengono ancora passaggi di non trascurabile fascino. Così nell’Annunciazione, forse il meglio conservato del gruppo, si è subito attratti dalle armonie cromatiche della figura di Gabriele: viola pallido per la tunica e un manto svolazzante i cui morbidi cangianti passano dal giallo chiaro al rosso oro. L’Arcangelo e la Vergine insieme riecheggiano dolcemente i difficili percorsi del triangolo sferico della cornice.

Con la splendida Madonna Addolorata realizzata nel 1707 per San Giovanni Battista delle Monache, l’arte di Andrea entra nella sua seconda fase. Entrando pienamente nell’orbita di Solimena e applicando rigorosamente la lezione dei classicisti che aveva studiato a Roma, dell’Aste mira a un’affermazione scultorea potente, ricca di dettagli tattili, ma pur sempre in un contesto compositivo pienamente barocco. La luce e l’ombra contribuiscono a stabilire le diagonali incrociate e ondulate che organizzano il disegno della superficie, ma non oscurano in alcun modo l’enfatica plasticità delle aree principali. Nell’impugnatura della spada che trafigge il fianco della Madonna ogni piccola scanalatura si distingue con rigida chiarezza. I tratti delicati delle Vergini sembrano più scolpiti che dipinti, ma per evitare la diffusione della messa a fuoco dell’Aste si concede un leggero velo di sfumato per trasporre i putti a un livello di realtà meno immediato. In linea con il tema, la tavolozza è quasi monocromatica, mentre la scala dei valori è leggermente più alta rispetto al passato. Questo stile maturo continua, anche se con una tavolozza molto arricchita, nelle due enormi tele (ognuna larga più di sei metri) che Dell’Aste dipinse per il coro di Sant’Agostino degli Scalzi nel 1710. Folle di figure modellate con forza, le cui vesti distribuiscono morbidi accenti di colore sulla superficie, si riversano nel piazzale di un tempio con colonne giganti e scale di marmo. Nell’Adorazione dei pastori gli angeli riempiono il cielo; dietro una colonna a sinistra si trova una donna che suona la cornamusa e accanto a lei, in quello che è forse il passaggio più poetico di Dell’Aste, un giovane sognatore vestito di rosa e marrone guarda in preda alle sue fantasticherie dal suo corno. In entrambe le tele la figura del repoussoir introduce il tema principale.

Andrea D’Asti (Bagnoli Irpino 1673 – Napoli, 1721). “San Michele, San Bruno e (forse) San Luigi di Tolosa”, circa 1709, Blanton Museum of Art, Austin, Texas

Tutto questo, con la sua travolgente sontuosità e abbondanza, risale direttamente a Solimena, attraverso Solimena alla “grande maniera” dell’Alto Barocco romano, e ancora più indietro (nella trattazione del tema, ma non certo nella tecnica) agli splendidi allestimenti con cui Veronese scandalizzò gli inquisitori veneziani un secolo e mezzo prima. Questa maniera settecentesca, con il suo schietto richiamo ai piaceri visivi, è ben lontana dal misticismo e dall’intensità dell’Alto Barocco romano, da cui è in gran parte scaturita. In un certo senso, la ruota ha chiuso il cerchio. Per il decennio che intercorre tra il completamento delle due tele di Sant’Agostino degli Scalzi e i progetti intrapresi poco prima della sua morte, dell’Aste abbiamo solo un’opera, la Crocifissione di Sant’Andrea, dipinta per l’altare maggiore del Duomo di Amalfi nel I715. Si tratta di una tela che lascia perplessi, il cui modellato duro e lineare e le tonalità acromatiche sembrano suggerire un ritorno allo stile del I707 circa, anche se con toni più chiari e contenuti espressivi ridotti. Non ci prepara in alcun modo alla fase finale di Dell’Aste. Verso il 1720, per la Galleria del Marchese d’Angelis a Napoli, Dell’Aste dipinse la sua prima mitologia. Sembra che abbia riscosso un immediato successo. De Dominici ne parla come “la più bella opera da lui dipinta … lodata da’ Professori . . degna d’essere ammirata da chi ha buon gusto della pittura, essendo dipinta con armonia, e con dolcezza di colore . . .”.

Sebbene il dipinto per la Galleria, che De Dominici descrive come “la favola dell’Aurora e di Cefalo”, non sia più rintracciabile, abbiamo la fortuna di avere a Genova un’Aurora e Cefalo che deve certamente esserne il bozzetto. La tela, finora sconosciuta, reca la firma dell’Aste sulla faccia della grande roccia a sinistra. Forse per le sue intrinseche possibilità di movimento e di chiaroscuro, la storia è una di quelle spesso dipinte dagli artisti barocchi. Racconta di come Aurora si innamorò di Cefalo, un bel cacciatore e principe della Focide. Non potendo separarlo con altri mezzi dall’amata Procri, ella lo porta via sul suo carro celeste. Con questo dipinto Dell’Aste si inserisce nella tradizione più avanzata del suo tempo come araldo del nuovo rococò.

Quanto sia distante dal punto di vista del Seicento lo si capisce subito confrontandolo con la famosa tavola di Agostino Carracci sullo stesso soggetto nella Galleria Farnese o con l’Aurora del Guercino nel Casino Ludovisi. Anche i dipinti del soffitto di Palazzo Pitti di Pietro da Cortona, che affrontano problemi simili, hanno i ritmi potenti e l’immediatezza della messa a fuoco che sono caratteristici dell’Alto Barocco. Qui lo stato d’animo è quello della detente: gioioso, giocoso, pieno di fascino, assolutamente non affaticato. In misura molto maggiore rispetto al Seicento, i bambini occupati svolgono compiti da adulti, dando un tono di prodigiosa innocenza che raggiungerà il suo pieno sviluppo solo molto più tardi nel secolo, nella Scuola di Parigi. Un solo bambino paffuto è sufficiente per guidare Lampus e Phaeton, gli eleganti cavalieri di Aurora. Un altro aiuta un adulto a versare la rugiada del mattino. Altri ancora stendono una coperta sul dormiente Tithonus, il marito di Aurora, per impedirgli di vedere ciò che non è opportuno che veda. Nell’angolo più lontano, un altro bambino con il dito alle labbra ammonisce i suoi compagni a lavorare in silenzio, in modo che Tithonus non si svegli. La modellazione di Dell’Aste rimane ferma ma, in linea con il nuovo mood, i contorni si ammorbidiscono. Le pieghe degli abiti sono ancora rigide, ma i ritmi più ampi sono giocosi; le curve a “S” sono ovunque. Gran parte dell’effetto deriva dalla superba gestione del colore. Dell’Aste colloca piccole aree di grande intensità vicino al centro, poi diffonde la stessa tonalità in toni pastello e mezzetinte che distribuisce in tutte le sezioni principali del dipinto. Tre o quattro “temi” di colore vengono così trasposti attraverso complesse variazioni. Come si sarebbe sviluppato Dell’Aste in questo nuovo filone possiamo solo fare delle congetture. Forte del successo ottenuto con l’Aurora e il Cefalo, il principe di Avellino gli commissionò la decorazione della sua galleria, ma prima che Andrea potesse iniziare i lavori morì. Ha lasciato quello che un tempo doveva essere un corpus ricco e abbondante, ma che il tempo e la guerra hanno drasticamente ridotto.

Nell’allegare a questo articolo i seguenti elenchi dell’opera di dell’Aste, spero che altri possano aggiungervi qualcosa, soprattutto attraverso l’identificazione dei bozzetti. Senza dubbio, molti dipinti ancora assegnati a Solimena, Francesco de Mura e ai loro contemporanei appartengono di diritto ad Andrea dell’Aste. La riattribuzione di tali dipinti non servirà solo ad ampliare la nostra conoscenza di dell’Aste stesso, ma dovrebbe contribuire a chiarire e ad arricchire la nostra comprensione del Settecento napoletano.

https://www.jstor.org/stable/873403?seq=8

Federico Lenzi 

(da Fuori dalla Rete Marzo 2024, anno XVIII, n. 1)

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