Il sogno di un’Irpinia migliore non poté concretizzarsi ad opera di Francesco De Sanctis. Un uomo, altrettanto volenteroso, fu Pasquale Stanislao Mancini. Di origini irpine e coetaneo di De Sanctis, Mancini, cercò di risollevare le sorti dell’Irpinia dalla sua nativa Castelbaronia.
Fu eletto deputato alla Provincia di Avellino nel 1848 e subito provò a cambiare le cose: inviò a Ferdinando II una “Petizione”. Essa conteneva un’esortazione a inviare truppe napoletano in Lombardia in difesa di Carlo Alberto. Negli stessi tempi, poi, diede vita alla “Protesta”, sottoscritta da numerosi deputati del Mezzogiorno: Nisco, Conforti, Savarese, Pisanelli e Capitelli. Fu costretto alla fuga e a cercar rifugio in Piemonte, dove conobbe Cavour e da questi gli furono affidate numerose importanti cariche. Tra tutte si ricorda la prima cattedra in Europa di diritto pubblico estero (o internazionale). Ai suoi occhi il principio di nazionalità era qualcosa di sacro: “solo può dirsi immortale ed eterno di quell’eternità che nella storia si conosce”. Importante è non dimenticare l’impegno profuso in nome dell’Irpinia.
Cercò di sollevare le condizioni dei lavoratori della provincia, e di occuparsi anche delle condizioni dei disoccupati, di cui mai si era interessata la “Destra”. I ceti “inferiori” erano stati per anni ed anni abbandonati, subordinati agli interessi di quella parte d’Italia “grande e potente”. Mancini si occupò anche del problema dell’emigrazione: era si un problema, ma poteva, nei suoi aspetti negativi, anche essere la soluzione a tanti mali che affliggevano la patria. L’emigrazione doveva esservi, ma non depauperando le migliori risorse dell’Italia (e dell’Irpinia). Fu anche sostenitore del colonialismo.
Il colonialismo auspicato da Mancini, però, era intriso di un senso di legittimità: non rovinare e sfruttare la terra conquistata, ma proteggerla e fruirne in funzione di una crescita positiva.
“Questo rapporto”, così disse Mancini, “ è tanto legittimo nel diritto internazionale quanto è legittimo nel diritto privato quel rapporto che chiamasi di tutela: tutela degli incapaci per età, ovvero per debolezza di mente; il quale non è incompatibile col principi dell’indipendenza e dell’eguaglianza di tutte le creature umane”. (Leonida Capobianco, P.S. Mancini iniziatore della politica coloniale italiana nella vita e nelle opere. Genova 1933). Mancini però non si accorse che, promuovendo il colonialismo, stava anche promuovendo una corsa alle armi, unico mezzo per “offrire” al conquistato i vantaggi della politica coloniale. L’emigrazione, un problema irpino.
In Irpinia, la fuga dalle miserie poco si collegava al sogno di valore che Mancini profondeva nel colonialismo. La corsa verso le Americhe era l’unica valvola di sfogo alla miseria, un catalizzatore per il benessere così raro in Irpinia. L’emigrazione transoceanica ebbe inizio. Il viaggio era “misterioso”, pericoloso e spesso doloroso. Al 31 dicembre 1871 si censivano in Irpinia 375.691 abitanti (102,95 per km quadrato):
-Circondario di Avellino: 170.660
-Circondario di S.Angelo dei Lombardi: 115.792
-Circondario di Ariano di Puglia: 89.239
In dieci anni (1861-1871) la popolazione era cresciuta di circa 20.070 unità.
L’aumento della popolazione e le misere condizioni economiche, la mancanza di industria, l’arretratezza dell’agricoltura, l’aumento dei canoni d’affitto, ai politici del tempo e a qualche storico sembrarono tutt’altro che cause del fenomeno dell’emigrazione. Tant’è che Valagara ritenne l’emigrazione una “mania” iniziata e diffusasi nel 1875.
Scrive a tal proposito Valagara, in Relazione su l’agricoltura, la pastorizia e l’economia rurale nel Principato Ultra da servire per l’inchiesta agraria governativa dell’anno 1879 (Avellino 1880): “Negli anni 1977 e 1878 avvennero delle emigrazioni in soli 13 comuni di questa provincia [l’Irpinia], e gli emigranti non superarono il numero di 114, compresovi un operaio della Provincia di Cremona, che da qualche tempo risiedeva nel comune di Cervinara. Il numero maggiore di emigranti fu dato dal comune di Lapio d’onde partirono, in un sol giorno del 1877, ventinove [29] individui, illusi dalle parole di un tal di Chiusano [Chiusano San Domenico], il quale era tornato dall’America per vedere i parenti. Dopo il detto comune, quelli che hanno dato maggiori contingenti all’emigrazione sono stati Cairano, Calabritto, Caposele e Montella. Diverse furono le ragioni che determinarono gl’individui suddetti ad emigrare”.
Sicuramente non si ebbe un’emigrazione puramente legata al bisogno economico, alcuni partirono per ampliare i guadagni (per avidità) e alcuni, infatti, tornarono tempo dopo con un discreto pecunio; ma la maggior parte delle genti che dovette abbandonare il paese natio vi fu costretta dalla mancanza di lavoro o per l’impossibilità di sostentarsi con quanto prodotto nel proprio campo (spesso di cui non si era neppure proprietari).
Vincenzo Garofalo
(da Fuori dalla Rete, Luglio 2018, anno XII, n. 4)
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