Gli antichi rituali di fidanzamento

di Aniello Russo

Il cippone si infilava nella gattaiola del portone della fanciulla, nell’attesa che fosse consentito portarlo in casa.


A quei tempi incontrare una ragazza da sola era come vincere un terno al lotto. La potevi vedere in chiesa la domenica o alla messa del vespro; oppure alla fontana, dove al tramonto andava a prendere l’acqua. Ma lei in cuor suo sognava di imbattersi nell’uomo della sua vita: si attardava per farsi notare, fino a che, caricato il barile sul capo, si allontanava impettita. Se non la trovavi alla fontana o in chiesa, di certo era in casa.

“Chi mi vuole sa dove abito!” rispondeva la ragazza nubile alla coetanea che la sollecitava ad uscire.

Lei lo sapeva che la coetanea, fidanzata all’insaputa dei genitori, andava sempre in cerca di una compagna complice. Le toccava mantenere la candela accesa per i due innamorati. Dice bene il proverbio: la vacca volu r’ muntagne e la puttana volu r’ compagne.

Prima della costruzione dell’acquedotto comunale, alla fontana c’era sempre una folla di donne che facevano la ressa con i recipienti. E si davano spintoni per non farsi superare nel turno dalle più furbe. Nei pressi si assiepavano branchi di giovanotti. Nello sciacquare i panni le donne si chinavano nella vasca, e inavvedutamente mostravano le caviglie e un pezzo di gamba, attirando gli sguardi dei maschietti, pronti a languire alla vista del biancore della carne.

I primi approcci tra nu guaglione e na guagliotta avvenivano dunque alla fontana. Qui un tempo una ragazza e un ragazzo recitavano il rituale di fidanzamento. E il tappo per turare il barile, l’oggetto di cui si avvalevano per questi rituali fortemente allusivi. Come allusivo, per un rituale simile, era il ceppo da ficcare nella gattaiola della porta di lei.

Il ceppo nella gattaiola

La documentazione del rito mi fu offerta negli anni ottanta da Salvatore, un irpino novantenne, lucido e fornito di una buona dote narrativa. Questo documento è autentico e genuino, risale al tempo della giovinezza dell’informatore. Ecco la testimonianza.

“Neppure tra le persone più anziane, come me sopravvive la memoria dell’antico rito del fidanzamento con il ceppo. Io non l’ho dimenticato, perché sono stato protagonista di questa operazione rituale. Credo di essere stato l’ultimo ad attivare la pratica, che tra l’altro ebbe pure un esito negativo. All’epoca ero il garzone di un capraio, che tutti i giorni mi dava da mangiare e ogni due o tre anni mi donava un paio di pantaloni e un maglione dismessi. Un anno mi concesse una giornata di libertà in occasione della festività del Patrono. La mattina della festa mi alzai due ore prima del sole. Scesi nella legnaia e scelsi un ceppo robusto (nu cippone). Con colpi di accetta sgrossai il tronco di faggio e lo infiocchettai con nastri e con fiori di campo, raccolti nell’ultimo quarto di luna”. Secondo l’immaginario irpino, l’ultimo quarto di luna è una fase propizia ai sortilegi.

“Poi me lo sollevai sulle spalle e con l’animo allegro mi avviai verso la casa di Maria. Giunto davanti all’uscio, con grande soddisfazione infilai il ceppo nella gattaiola (int’a lu attarùlu). Poi mi nascosi sotto l’androne della casa di fronte”.

Finché è durata la civiltà rurale, la porta di casa recava nella parte bassa un buco tondo, sufficiente a consentire agli animali domestici di poter uscire e rientrare. In diverse case gli animali (la gatta, il cane, le galline) vivevano e dormivano con i padroni. In qualche famiglia dormiva nella stessa stanza pure l’asino, come nella grotta di Betlemme. Lasciamo ora la parola alla fonte.

“Passo non poco tempo, prima che vedessi la porta di casa spalancarsi di colpo. Apparve sulla porta la madre di Marietta, che appena vide il ceppo, guardò intorno in cerca dell’autore e non vedendomi prese a gridare la frase rituale: chi è ncipponato la figlia mia? (chi ha messo il ceppo a mia figlia?).

Solo allora uscii dall’oscurità del nascondiglio e mi mostrai alla madre di Mariella.

-Io, sono stato io –  risposi-

-Aspetta che chiamo mio marito- E accostatasi all’entrata urlò un nome: -Malapè, ohi Malape…-

E Malapelle comparve all’esterno, ancora stravolto dal sonno. Io subito rilevai il mio nome, il casato, il mestiere… il cuore mi batteva, aspettando con ansia l’attimo in cui la madre di Mariolina, a un cenno del marito, tirasse il ceppo dentro casa. Quel gesto significava l’accettazione della mia persona nel seno della sua famiglia. Per il momento come fidanzato ufficiale. Ero sicuro del consenso dei genitori, perché lei aveva gradito i doni che le avevo dato in tutto questo tempo: latte, ricotte, cacio. Una volta ero riuscito a sottrarre al mio padrone pure un capretto…

Appena, però, il padre senti che ero un misero garzone, senza alcun salario, abbrancò il ceppo e lo buttò in mezzo alla strada. Mi guardò torvo e mi ammonì severamente: -Tu credi che mia figlia viva d’aria? Miserabile, non accostarti mai più alla mia gattaiola, neppure se bussi con i piedi- Con tutto quel frastuono, Maria… Mariola neppure si affacciò alla finestra!

Frettolosamente mi ripresi il pezzo di legno inghirlandato, me lo rimisi in spalla e… che dovevo fare altrimenti? Me lo riportai a casa! Il ceppo l’avrei conservato per un’altra occasione.

Con il tempo mi feci furbo. Con i soldi sottratti al mio stesso padrone un giorno acquistai le sue capre. Mi vendetti il gregge e comprai un negozio di salumeria, già bene avviato. Un giorno sposai una ragazza onesta e parsimoniosa; non badai che era povera: possedeva soltanto la veste che indossava. Con il negozio ho cresciuto cinque figli, che ora sono tutti professionisti: uno è ingegnere, un altro avvocato, due sono inseganti e l’ultima è una dottoressa. Maria sposò un manovale e fu costretta ad emigrare con il marito in Germania…”

Aniello Russo (Il Quotidiano del Sud 9.9.2018)

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