Michelangelo Buonarroti, Affreschi della Cappella Paolina

di Gennaro Cucciniello

L’articolo è stato ripreso dal sito web dell’autore (www.gennarocucciniello.it), il quale nell’ultimo anno ha pubblicato in serie quattro approfondimenti su Michelangelo, per una ragione ben precisa: Il tema era il rapporto tra arte e fede religiosa. Dalla prima Pietà (quella di San Pietro) del 1498 -quindi un Michelangelo di 23 anni- alla Pietà Bandini di Firenze (1550) e alla Pietà Rondanini di Milano (1560) -un MIchelangelo di 75-85 anni- scorre tutta la vita del nostro scultore: c’è la sua storia personale e quella della gravissima crisi italiana (culturale e storica). Gli affreschi della Paolina -subito dopo il Giudizio Universale- si intrecciano con questa evoluzione. Per meglio comprendere, quindi, questa chiave di interpretazione si invita a leggere gli altri tre articoli direttamente dal sito web del prof. Cucciniello che, tra l’altro, già nel 2008, aveva scritto per il nostro Circolo un articolo di analisi sulla “Flagellazione di Gesù” di Caravaggio.

La committenza.

Il papa Paolo III Farnese (1534-1549) volle far costruire da Antonio da Sangallo il giovane tra il 1537 e il 1540, accanto alla Sistina, una sua Cappella, chiamata appunto Paolina.

Quelli tra il 1530 e il 1550 furono anni difficili, nei quali la Chiesa di Roma dovette affrontare i problemi della difesa dello Stato Pontificio dentro il quadro della fase finale del conflitto tra Francia e Impero e, nello stesso tempo, rispondere alla crisi religiosa, frenare la disgregazione sociale e politica, porsi l’obiettivo in Europa della contrapposizione dell’ortodossia all’eresia protestante dilagante e contemporaneamente avviare la riforma della Chiesa cattolica. Possiamo dire che delle difficoltà e delle contraddizioni di quegli anni Paolo III fu il protagonista storico, mentre –fra gli artisti presenti a Roma- Michelangelo ne fu l’interprete più sensibile e angosciato. Buonarroti si era legato alla cerchia di intellettuali gravitante intorno a Vittoria Colonna e al cardinale inglese Reginald Pole e condivideva le basi umanistiche della loro speranza di poter conciliare, o almeno di poter mantenere aperto il dialogo tra protestanti e cattolici. Il cardinale Pole, cugino del re inglese Enrico VIII, nominato nel 1541 Amministratore del patrimonio di San Pietro, era stato inserito dal papa –insieme ai cardinali Contarini e Carafa- nella commissione De Emendanda Ecclesia e designato legato pontificio al Concilio. Suo era stato il discorso inaugurale e la sua posizione –sul tema della giustificazione per fede- era ben ortodossa ma egli era conciliatorista, non trovava giusto la semplice respinta delle tesi luterane senza tentare neanche un approfondimento dialogico. Da molti si riteneva che il papa lo considerasse già suo successore, anche per tentare di riportare l’Inghilterra nel campo cattolico. Pole si opponeva alla posizione intransigente del cardinale Carafa, capo del Sant’Uffizio. Dopo la morte di Paolo III, nel 1549, il card. Carafa, capo degli intransigenti, portò nel Conclave la documentazione da lui raccolta sulla pretesa eresia di Pole e per pochi voti ne impedì l’elezione. Per i riformisti fu la fine. Nel frattempo, tra il 1536 e il 1541 Michelangelo aveva terminato l’immenso affresco del “Giudizio Universale” nella Sistina, opera che Paolo III gli aveva commissionato nel 1534, riprendendo il programma di Clemente VII. La sua si rivelò una pessimistica, personale interpretazione del dramma della crisi religiosa di quegli anni: ad alcuni sembrò rievocare le cupe strofe del “Dies Irae”. Il Giudizio apparve subito a tutti un’opera inaudita: Michelangelo aveva ridotto a cenere il concetto di bello ideale, annichilito la prospettiva e tutta l’estetica della Maniera, aveva definito la grande arte italiana quale sintesi concettuale e filosofia visiva, ma soprattutto aveva disorientato la Curia per l’inopportunità, morale e teologica, di quelle immagini. La rinuncia alla tradizionale organizzazione in fasce orizzontali, dove tutti gli attori occupano il posto definito dalle fonti bibliche secondo un criterio gerarchico, a favore di una composizione priva di inquadrature architettoniche o strutture prospettiche che organizzino lo spazio, la netta separazione tra beati e dannati dovuta all’assenza del Purgatorio, gli angeli senza ali, i santi senza aureola, inquietano gli ambienti curiali .Ma nel grande affresco il pittore si rispecchiava, torturato dal problema terribile della salvezza, anche se poi, nella contemplazione della morte, aveva sentito, nei suoi versi, “l’anima volta a quell’amor divino / ch’aperse a prender noi in croce le braccia”. E nel Giudizio la croce appare vicino alla Vergine Maria, radunando attorno a sé la fede dei santi. Al papa Paolo III piacque l’opera michelangiolesca, il papa che si stava presentando come il promotore del Concilio di Trento: quel Giudizio, secondo la sua interpretazione, si sarebbe ben potuto interpretare quale allegoria del Concilio stesso che conculca gli eretici e fa trionfare la fede cattolica.

Nonostante dubbi e perplessità, il papa, nel 1542, aveva chiesto proprio a Michelangelo di decorare le pareti della Cappella Paolina e gli aveva affidato il progetto di eseguire due affreschi contrapposti, aventi come temi la Conversione di Saulo e la Consegna delle chiavi a Pietro, soggetti cari alla Sede Apostolica e adatti a rivalutarne il prestigio, scosso dalla rivolta di Lutero, e a legittimarne il potere temporale. Michelangelo però fu di diverso avviso e alla fine, incredibilmente, riuscì ad imporre il suo punto di vista: non la Consegna delle chiavi a Pietro ma la sua Crocifissione, testimoniando così che non è il potere a legittimare la Chiesa ma la fede. Modificando il progetto del papa, Michelangelo modifica profondamente l’assunto ideologico dell’opera. Gli affreschi sono tematicamente coerenti: nella Conversione viene espresso il momento della folgorazione, nel quale Dio sceglie, con un suo giudizio insindacabile, a chi concedere la grazia; nella Crocifissione il centro è il martirio, il sacrificio della vita terrena in nome della fede, sacrificio che accosta l’uomo a Cristo. Questo ci riconduce a quella cerchia di pensieri e di sentimenti dei quali il pittore si dovette nutrire, in quegli anni, nell’ambiente dei riformatori che ho già citato (Vittoria Colonna, i cardinali Pole e Contarini, Bernardino Ochino generale dei Cappuccini, Pietro Carnesecchi già segretario di Clemente VII ed altri personaggi laici ed ecclesiastici del circolo dei discepoli di Juan de Valdés).

Apparentemente sono due figurazioni storiche: è Argan a sostenere che realisticamente rappresentano, come esemplari, i due momenti essenziali della vita religiosa, la conversione per improvvisa discesa della Grazia e il martirio come suprema testimonianza della fede.

“Conversione di Saulo”. Descrizione dell’opera.

La scena è ambientata in un paesaggio arido, sconsolato, irreale, dove la natura è assente. L’episodio non è figurato come un evento storico, determinato nello spazio e nel tempo, ma come un’esperienza mistica di contatto tra l’uomo e Dio, possibile –per virtù della fede- ad ogni cristiano. Spazi vuoti si alternano bruscamente con grovigli di figure, modellate con non molta accuratezza, e che mostrano un profondo senso di smarrimento. L’ordine prospettico tradizionale è frantumato, come nel Giudizio. La fulminea istantaneità e la folgorante potenza del miracolo trovano un’espressione molto efficace nella struttura centrifuga della composizione, con i due gruppi che divergono ad arco, sulla superficie e insieme nello spazio, sull’asse centrale del cavallo in fuga e lanciato verso l’alto. Al movimento centrifugo della parte inferiore corrisponde inversamente il moto centripeto della scena nel cielo, dove gli angeli ignudi convergono in circolo verso il Cristo. Tra le due zone ci sono altri legami di contrapposizione: vedi il rapporto tra il cavallo e Cristo (il primo lanciato verso l’alto, Gesù verso il basso), senza alcuna irriverenza ma solo per esigenze espressive, formali. E ancora: a destra, in basso, il soldato che si tappa le orecchie, e –in alto- il grande angelo in volo poco sopra la testa del cavallo.

La caduta di Saulo è il trionfo della grazia, con un Cristo che si tuffa dal cielo preceduto da una luce abbagliante e circondato da un turbine. La grazia inonda Saulo ma la mano sinistra di Gesù indica la città di Damasco (che potrebbe assomigliare alla Roma classica: là ti verrà detto cosa devi fare). La fede, insomma, non è mai disgiunta dalla carità, pena la sua stessa morte. E l’apostolato è la più grande carità. Quel Cristo che scende da un cielo catastrofico a tirare su Saulo, impropriamente vecchio, disarcionato e accecato, precipita su esseri disperati e violenti. Si ha l’impressione che il mistero della Grazia, offerta a un’umanità immeritevole, angosci l’anima di Michelangelo che vive e testimonia, da cristiano, la crisi religiosa della sua epoca divisa e lacerata dalla Riforma.

La Crocifissione di Pietro

Qui l’insolita disposizione spaziale in diagonale della croce è l’asse di uno spazio sferico rotatorio, centrato sul volto terribile del martire. In basso la scena è tagliata, con l’effetto di coinvolgere lo spettatore in una visione priva di un preciso punto di vista. Il protagonista è leggermente decentrato, circondato da una schiera di comprimari. Tutta la tensione drammatica è concentrata nella potente torsione di Pietro, già deposto sulla croce. L’apostolo, di straordinaria bellezza e potenza fisica, è un uomo che accetta il martirio come scelta di pura e profondissima fede. E poiché è la fede a portarlo su quella croce, non sono necessari i chiodi per conficcarlo, Pietro si consegna volontariamente al sacrificio. E’ dipinto nudo, l’esibizione della sua corporeità totale sottolinea il carattere straordinario della chiamata della fede. Il suo corpo, non toccato ancora dai segni del supplizio, è una specie di offertorio spirituale, che va al di là delle contingenze della storia, che deve essere continuo e sempre presente nella vita della Chiesa. La testimonianza di Michelangelo verrà ancora una volta censurata: la teologia ufficiale, ormai vittoriosa nel Concilio di Trento, provvederà a coprire l’umanità di Pietro nascondendo con un pannetto bianco il suo sesso capovolto e a inchiodarlo con dei chiodi alla croce (i chiodi sono stati aggiunti, come pure lo straccetto bianco, sulla pittura già invecchiata).

Mi provoca sempre grande turbamento l’idea formidabile, non a caso ripresa dal Caravaggio nella cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo, dell’apostolo che –nel momento di stendersi sulla croce- ci guarda corrucciato, quasi dubbioso dell’utilità del suo sacrificio. Per chi è quello sguardo terribile? Per tutti noi, certo, indegni di portare il nome di cristiani. Ma anche per i cardinali che un tempo qui si riunivano in conclave e soprattutto per il papa che, entrando nella Cappella, non poteva sfuggire a quello sguardo.

Ancora altre due notazioni. Le figure degli astanti qui sono organizzate in modo centripeto e circolare. I soldati e i dolenti descrivono –con un moto ampio di rotazione- un grande arco di cerchio intorno al centro, che è la testa di Pietro. Da sinistra sopraggiunge un gruppo di soldati a cavallo, da destra accorre una folla. Tutte le rappresentazioni tradizionali presentavano la croce già piantata in verticale al suolo e Pietro capovolto. Qui, invece, la croce è posta in obliquo ed è sollevata da terra dagli esecutori ad una delle sue estremità, con la figura rattrappita di un uomo che scava il terreno, mentre il crocifisso ruota col corpo sotto l’impulso del movimento della croce. In questo modo la testa e gli occhi fulminanti di Pietro diventano il fulcro dell’opera. I soldati e folle silenziose di personaggi passano e guardano lentamente, figure possenti, masaccesche, e l’espressione dei volti si irrigidisce in uno sgomento allucinato.

Qualche critico ancora intravede il ritratto di Michelangelo nei volti di Saulo caduto dal cavallo e di un personaggio che medita, come in disparte, in questa crocifissione. Molto assomigliano al Nicodemo della Pietà Bandini di Firenze. La via della salvezza per Michelangelo passa attraverso il dubbio, il ripensamento: questo è l’esito finale delle riflessioni iniziate nel Giudizio sulla presenza del divino nella vita dell’uomo. E’ la sua testimonianza estrema: quella di una crisi religiosa e morale senza vie d’uscita, salvo quella di una mistica e totale unione con Dio.

Conclusione.

Michelangelo ha ormai più di settanta anni. Mezzo secolo è trascorso da quando tutti gli orgogliosi artisti fiorentini si inchinavano davanti al suo cartone con la Battaglia di Cascina, fatto a gara con la Battaglia di Anghiari di Leonardo; e quasi altrettanti anni sono trascorsi da quando Bramante consentiva di nascosto a Raffaello l’ingresso sotto la volta della Sistina non ancora ultimata e accendeva in lui invidia ed emulazione. Adesso, e da tanto tempo, Raffaello e Leonardo, Giulio II e Leone X sono morti, e sono invecchiati, o cambiati, anche molti fra i loro allievi e seguaci. Da poco è morto anche il suo papa, Paolo III Farnese, che tanto l’aveva appoggiato e difeso. L’Italia, la bella e ricca e colta Italia, ha perso la sua indipendenza ed è diventata un campo di battaglia e di conquista per i vicini e potenti Stati stranieri La Chiesa è stata prima scossa dall’eresia e dallo scisma, poi –raccolte le sue schiere- ha comandato la riscossa contro ogni libero giudizio sugli argomenti di fede; ha guardato anche al Giudizio della Sistina come ad un testo pericoloso e infido; ha meditato persino di distruggerlo. Michelangelo è rimasto solo, sono morti i suoi amici, stringe in mano poco amore. E’ tormentato dal dubbio di aver speso tutta la sua vita a lavorare per conto di una Chiesa che si è smarrita. S’interroga per capire se con il successo e le committenze ricevute da papi fin troppo terreni egli non abbia perduto se stesso. I suoi ultimi disegni ritraggono corpi pesanti e gravi, ridotti a notturni fantasmi di cenere, dentro livide atmosfere, piegati dalla sofferenza e dal dolore. Adesso hanno speranza soltanto nella Grazia del Salvatore, sperano quella salvezza eterna che a lungo Michelangelo aveva sperato di meritare con l’opera e il pensiero.

Gennaro  Cucciniello

(da Fuori dalla Rete, Maggio 2019, anno XIII, n. 2)

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