È giusto un anno che il frate salernitano Agnello Stoia è alla guida della parrocchia più importante del mondo: quella di San Pietro. In Vaticano ci sono due parrocchie: quella di San Pietro che riguarda la Basilica e la piazza antistante e quella di Sant’Anna che insiste su tutto il resto del territorio papalino. Sulla prima, che rappresenta il centro pulsante del cristianesimo, presiede la cura pastorale, dal giugno 2021, questo frate minore conventuale di 55 anni originario di Pagani. Proprio nel giorno dedicato ai santi Pietro e Paolo, quando Roma festeggia i suoi patroni e il Vaticano i suoi fondatori, Agnello Stoia ha iniziato il suo ministero come parroco nella chiesa più significativa della Cristianità. Dodici mesi vissuti tutti d’un fiato. Dedicati soprattutto ad accogliere i pellegrini che dopo la sosta pandemica riprendono ad arrivare numerosi.
Cosa fa il parroco della chiesa più famosa?
«Cerco di tradurre concretamente l’insegnamento di Papa Francesco. Essendo parroco di questa chiesa così particolare mi sento di spalancare il cuore a tutti, di farmi prossimo a tutti come ci insegna lui. Cerco di aiutare le persone ad entrare in San Pietro dando le chiavi interpretative per una lettura teologica di questa chiesa che è Santuario delle Nazioni. Chi viene qui oltre a stupirsi per la pietà di Michelangelo cerca tra le cose belle il Bellissimo».
L’apostolo Pietro, il primo Papa qui sepolto le è divenuto ancor più familiare in questo anno?
«Lo sto conoscendo sempre più profondamente attraverso lo studio, la meditazione, la frequentazione di questi luoghi ma anche di quelli che a Roma ne conservano il ricordo».
Chi sono i suoi parrocchiani?
«Ah, tutti morti (ride). Sono quelli sepolti nella Basilica. In realtà non ho parrocchiani. Vivo questo ministero a nome di tutti i preti del mondo. Soprattutto di quelli che vivono situazioni di difficoltà».
Come si svolge la sua giornata?
«Io mi occupo molto della celebrazione dei sacramenti. Le richieste vengono da tutto il mondo. Cerchiamo di essere attenti a tutte le istanze. Il criterio è quello dell’accoglienza, della gratuità e della disponibilità».
Il suo impegno principale?
«Lavoro molto con i pellegrini, lo scorso anno ne ho accolto uno partito dal Gran San Bernardo spingendo una carrozzella vuota. Si è fatto tutta la Via Franchigena ma poiché la mamma era malata e non poteva portarla con sé ha camminato anche per lei. È davvero bello accogliere un pellegrino che viene a piedi. Io conosco questa fatica».
Anche lei ha fatto questa esperienza?
«Sì, nel 1998 sono partito da Saint Jean pied-de-porte fino a Santiago, 780 km a piedi».
Chi è oggi il pellegrino?
«Chiunque ha davanti a sé una meta, un punto di arrivo. È fortunato. Mettendolo a fuoco orienta il suo cammino. Il vero pellegrino raccoglie chi è, le scelte che fa».
Tanti arrivano anche dalla Campania…
«Sì, ma i campani vengono con i mezzi di trasporto. In genere quelli che scelgono di arrivare qui a piedi vengono dal Nord Europa. In questi ultimi mesi mi è capitato di accogliere anche un calabrese, che è arrivato al Nord poi a piedi ha percorso la Via Franchigena. Ha fatto sosta qui in San Pietro e poi ha proseguito verso Santa Maria di Leuca. Io cerco di accogliere queste persone con tutte le premure possibili. Chi fa tanti km deve trovare continuamente motivazioni di fronte alle difficoltà. Va incontro a problemi fisici e logistici».
Ci sono giovani che si mettono in cammino verso San Pietro?
«Tanti. Davvero tanti. È venuto un ragazzo francese che si è fatto un botto di km per arrivare qui. Per gli adulti spesso il pellegrinaggio è un modo alternativo di fare vacanza. Un ragazzo che si affaccia alla vita, che potrebbe spendere questo tempo per guadagnare soldi o divertirsi e sceglie di farsi più di 1500 km a piedi mi arriva dritto al cuore. Mi commuovo. Comprendo davvero di essere in un luogo che attira interesse da tutto il mondo. Questi episodi mi spingono a non posare lo sguardo in modo abitudinario su queste pietre che calpesto continuamente negli ultimi dodici mesi».
Da dove vengono prevalentemente?
«Tanti dal Nord Europa, vengono singoli, a coppie, a gruppi, giungono in sacrestia a chiedere il Testimonium ».
Cos’è?
«Il documento che attesta il pellegrinaggio devotionis causa alla soglia dell’apostolo Pietro. Lo si riceve a fronte della credenziale che il pellegrino deve mostrare. Il documento con i timbri e le date che attestano le soste fatte lungo il faticoso cammino percorso».
Sulla Via Ostiense vi è la tomba di San Paolo. Potremmo definirlo un campano di passaggio. Dirigendosi verso Roma passò dall’antica Puteoli e vi soggiornò brevemente, la emoziona questo?
«Sì. Mi emoziona anche la grazia dei luoghi. Quando faccio quattro passi sui basoli dell’Appia Antica mi riporta a Pietro e Paolo che hanno camminato su queste pietre. Sono basoli che mi sono familiari. Sono come quelli dove mi sono sbucciato le ginocchia da bambino. Quelli di via Origlia a Nocera. Noi campani ce li portiamo dentro. Queste strade di basoli duri come spesso è duro il nostro cammino».
Fra tre anni ci sarà la celebrazione del Giubileo: Pellegrini di Speranza. Sarà molto indaffarato?
«Tanto. Per la straordinaria quantità di pellegrini che arriveranno. Si è già da tempo all’opera su molti tavoli di lavoro».
Mi permetta di chiederglielo, si frequenta molto con il Papa?
«Vedo il Papa da lontano. Lo vedo passare quando va a celebrare l’Angelus, lo accompagno con la mia preghiera. Mi basta. Invito i pellegrini a pregare per lui. Non lo incontro spessissimo. Ma lo vedo molto. È il mio vescovo. Il suo è uno sguardo di sostegno. Noi che gli stiamo più vicini abbiamo il dovere di sostenerlo. Nella Basilica c’è un’ immagine che è molto significativa: “la navicella”. E’ un mosaico che riproduce un cartone di Giotto presente nell’Atrio Basilica. Nel mare in tempesta Cristo cammina sulle acque. Pietro gli va incontro ma impaurito comincia ad affondare e Cristo lo tiene per mano. Questa è l’immagine em blematica della Chiesa. Il Papa ci sorregge».
Rosa Carillo Ambrosio