Cara Grazia e cosa devo dire, al disfacimento materiale personale, si è aggiunto quello morale a causa anche delle non molto buone condizioni di salute di Marisa. Si sa, con gli anni la salute se ne va, accetti tutto, anche il dolore fisico che almeno testimonia la tua sopravvivenza e ti fa pensare: soffro quindi sono vivo. Ma risulta ancor più demoralizzante quando senti e vedi che nulla è più come prima e anche gli amici, coetanei o meno, uno alla volta, ti lasciano solo. Mi mancano tanto Aniello, Nando, Domenico e altri amici bagnolesi.
Allora mi chiedo quale gioco crudele ha stabilito che io, proprio io, devo essere spettatore di questa ecatombe, seppur con la magra consolazione di qualche giorno o mese vissuto in più, laddove un blackout inaspettato sarebbe stata la più logica soluzione.
Diventa poi drammatico venire a conoscenza della scomparsa graduale anche dei luoghi dell’anima che ho condiviso con i compagni e gli amici più cari della mia giovinezza.
Proprio ieri, infatti, su PT 39 ho letto della chiusura del <Bar Centrale>. Ho vacillato al pensiero della storia del bar e della mia vita vissuta a Bagnoli. I ricordi mi hanno scosso come scariche elettriche di dolorosa nostalgia, in una ridda di malinconiche sensazioni recondite ancestrali di quel mondo che non c’è più.
La storia del <Bar Centrale> iniziò quando Aniello Patrone re scardalanu a cavala rilevò il locale di Piazza L. di Capua, fino ad allora garage per il camion da trasporti di Caputo, quiddu re caravarara int’a la strettela re lu carpunu a lu vavutonu, padre del nostro Peppe.
Ancor prima era stato la sede del caffè/circolo di Preziuso lu scienziatu, dove i notabili paesani dell’epoca, con il bel tempo, indugiavano in conclave ai tavolini fuori del locale, gambe accavallate a mostrare il colore dei petalini, il borsalino, la catenella dell’orologio/cipolla che adornava la cammesola, sulla candida camicia con cravattino o farfalla, il bastone di distinzione da passeggio di legno pregiato con anello e impugnatura a becco e il bianco fazzolettino da taschino.
Da quell’osservatorio a 360°, seduti e impettiti, assistevano e commentavano con la discrezione del caso il passeggio festivo in piazza di uomini e donne a braccetto, compiacendosi del saluto riverente loro rivolto da cumpari, cumparielli e cummarelle di passaggio davanti al locale.
Aniello, emigrato in Venezuela, con un folto gruppo di giovani paesani disoccupati, contadini e artigiani, convinti di andare ala Mereca, condannati a vivere, nella laguna di Maracaibo o nelle paludi della Guyana, in baracche di legno e foglie di banano, in compagnia di tafani, zanzare, rettili delle più varie specie e dimensioni e alligatori.
Il nostro Aniello dopo anni di sacrifici ritornò a casa con i risparmi necessari per intraprendere un’attività che lo ricompensasse con una vita migliore, pensando già alla gestione di un bar nel paese.
Dopo un periodo di apprendistato svolto in un importante bar di Avellino, Aniello aprì il suo nella piazza principale del paese, dove peraltro ne erano già presenti altri e di lì a poco avrebbe aperto anche il Bar Sport di Rogata, altro emigrante di ritorno a Bagnoli.
È vivo il ricordo di un mattino del mese di ottobre del 1957, quando in ora ancora antelucana uscivo da casa a lu Capalanaru per raggiungere i miei compagni che mi attendevano in piazza per andare a piedi alla stazione a prendere la litturina che ci avrebbe portato alla scuola media di Lioni.
Int’a lu vavutonu, l’orologio della torre rintoccò 5 volte e poi ancora 3, un nitrito e un tramestìo nel buio attirò la mia curiosità, nu ciucciu cu la varda si era abbeverato nella canalina di pietra che bordava la vasca delle fontane e si scrollava soddisfatto la testa, mentre il padrone che potevo individuare grazie al ravvivarsi della sigaretta accesa in bocca, aspettava paziente, cappello in testa calato fin sugli orecchi, mantellina e accetta sulla spalla.
Attratto da quell’insolito incontro mattutino mi accorsi appena di una sfuggevole ombra bianca passarmi accanto, sotto il cono di luce fioca del lampione appeso al filo steso tra gli angoli re li tittiri re la casa re padaccola e re quiddu re lu massaru, all’ingresso in piazza, potei riconoscere Aniello in camice che come agni mattino alla stessa ora, andava ad aprire il suo bar, mettere pressione alla sua moderna macchina <GAGGIA> per il caffè da servire ai viaggiatori in attesa presso il tubocar di AGITA/SFSM in sosta di fronte al bar sott’a re licine.
Di lì a poco sarebbero partiti per i paesi limitrofi e il capoluogo provinciale, per il disbrigo di qualche pratica presso la Previdenza Sociale in Piazza Libertà o presso il Distretto Militare nella zona dei platani o per acquisti presso i negozi di Atripalda.
Le donne non erano solite prendere il caffè al Bar Centrale, preferivano viaggiare, dicevano, a stomaco vuoto per evitare il vomito da viaggio, provocato dalla nafta nauseante del bus, dalle curve di Montemarano e dai tornanti re lu Malupassu.
Intanto già s’erano accunzate sul bus presso i finestrini, cu li maccaturi ncapu che lasciavano intravvedere solo il naso e la bocca, ad ogni buon conto già provviste di asciugamani, tenevano ancora dormiente tra le braccia il piccolo figliolo da portare a visita urgente presso qualche medico specialista di Avellino.
All’epoca erano già presenti in piazza altri bar, meglio detti <cafè o puteche>, che nonostante l’insegna, erano individuati cu lu nomu o lu scanginomu del proprietario, talché si era solito dire iammace a piglià nu cafè addu Carlonu o addu Capriuolu, ca lu fannu buonu, o addu Giorgiu e a lu Pintu, ne picca cchiu sottu int’a lu vavutonu.
Lu Cafennuovo re Giorgiu, ad onta del nome, era il più antico bar del paese, costituito da una sala centrale fornita di due tavoli in ferro e marmo bianco ormai anneriti e sbreccati dal tempo, collocati a ridosso delle due pareti laterali ornate di larghi specchi. Ai lati dell’ingresso aveva due alte vetrine in metallo che nella loro ampiezza esponevano poca roba e in particolare un vassoio di cioccolatini <Mon Cheri>, ripieni di liquori e di una gustosissima ciliegia, di cui ero molto goloso.
Il pregio di questo caffè era rappresentato dalla sala attigua di destra ammobiliata con un divano di velluto rosso bordeau che aveva visto tempi migliori e un grande biliardo a stecca e carambola, meta a tutte le ore del giorno dei nullafacenti giovani bagnolesi che vi accedevano direttamente dalla strada tramite l’ingresso a vetrata.
In un deposito alla sinistra del bar coabitavano un biliardo di calcio balilla e qualche sacchetta di lupini secchi che la sempre indaffarata moglie re Giorgiu, metteva a mollo per poi rivenderli a cuppetielli fuori del bar.
Giorgiu, cappello sempiterno in testa, occhiali alto, magro e barba bianca sempre curata, era coadiuvato nella gestione dai figli, in particolare Carmunucciu e Rafaele, quest’ultimo addetto anche all’ordine dei locali giochi, per il quale nutrivo profondo astio e antipatia, poiché era solito cacciarmi fuori dal bar, con altri compagni in bolletta, vietandoci anche di assistere ai giochi dei nostri compagni più fortunati.
Infine, il Bar Italia di Avena Domenico, padre del mio compagno e amico Pierino, più tranquillo e riservato, frequentato da giovani coppie che volevano sorbirsi in intimità il gelato re lu Pintu.
Il bar consisteva anche di una ricca pasticceria che, nelle feste di Natale, Pasqua e raccomandate, era sosta obbligata per i Bagnolesi che in uscita dall’ultima messa vi si fermavano per l’acquisto del cartoccio di paste, teste di moro, zuppette, mastacciuoli. da portare a casa per il pranzo con un bicchierino di rosolio o vermouth.
Lu Pintu, oltre alla gola curava anche la fede dei nostri paesani, provvedendo, tutto l’anno e specialmente di questi giorni, alla pulizia, spolvero, adorno floreale, illuminazione e altro dell’antica Capella della Vergine collocata a lato del suo locale.
In una sorta di distinzione per classi sociali, i caffè erano di solito frequentati, per la maggior parte, dai vecchi pastori e contadini del paese a preferenza del bar Laceno, operai e artigiani per il bar Roma e giovani, studenti e no, giocatori di biliardi per lu Cafennuovo.
Il Bar Centrale con la sua facciata marmorea era il più elegante e moderno, talché divenne ben presto il luogo di ritrovo dei giovani studenti del paese.
Assidui frequentatori del bar chiedevamo spesso ad Aniello la funzione delle due aperture realizzate sulla facciata a mezza altezza ai lati dell’ingresso; lui meravigliato dalla nostra domanda ci diceva, anche se con poca convinzione, che servivano per il servizio di passaggio delle consumazioni dei clienti seduti ai tavolini fuori il bar, senza dover necessariamente uscire dal locale: una vera novità in realtà mai sfruttata e in seguito soppressa.
Il Bar Centrale era frequentato anche dai migranti bagnolesi ritornati al paese per il Natale o la Pasqua, che vi si accalcavano per scambiarsi le loro esperienze lavorative all’estero, confrontare le paghe orarie in franchi e centesimi, vantarsi delle conquiste amorose e soprattutto delle loro auto di grande cillindrata con le quali erano arrivati in paese, fumando e offrendo agli amici bagnolesi Parisienne, Turmac, Gauloises, North State e altre sigarette.
Il bar, sotto lo sguardo rassegnato di Aniello dietro il bancone, diventava ben presto nu gratalu in piena attività dove a volte si poteva respirare a mala pena, mentre fuori pioveva o nevicava.
Noi vi eravamo soliti incontrarci per una partita a briscola, scopa, pizzucu o tressette, che compresa rivincita e bella, a volte durava un’eternità, e si concludeva con la vincita di una manciata di caramelle o la consumazione al banco di un caffè, un’aranciata, una gazzosa, con grande disappunto di Aniello che forniva carte da gioco e occupazione di tavolino e sedie quasi per niente.
D’estate nei pomeriggi del sabato e della domenica andavamo a giocarci la fresca birra Peroni a <padrone e sotto> con Ciro, Nando, Tonino Conte, Domenico Bernardo, Aniello, io e altri amici, in un contorno di spettatori curiosi della partita a birra a lu zilavrienzu, fruscio e premera, tarantina trieste e trentu, scopa e sette e mezzo.
Il gioco consisteva nel distribuire le carte ai partecipanti, chi aveva le migliori, era il <padrone> e comandava d’intesa con il <sotto> che aveva avuto le seconde migliori carte, la passata di birra proponendola o negandola (mannanne a urmu) a questo o quello. Se il <sotto> non era d’accordo non c’era birra per nessuno e il <padrone> poteva bersi anche il bicchiere di birra del sotto, mentre tutti gli altri giocatori assistevano astiosi costretti a inumidirsi con la saliva la bocca asciutta per i salatini.
Si iniziava a giocare in spasso e allegria ma ben presto diventava una contesa a veti incrociati e una rivalsa di precedenti giocate. Il gioco si incattiviva, talché ad un certo punto l’amico Aniello chiamava il suo omonimo dietro il bancone del bar: Aniè fa na cosa, portaci nate ddoie casciette re birra e a me 5 pacchetti re salatini, pecché me sa tantu che mo non ce ne sarà cchiu pe nisciunu.
In questo gioco Aniello era bravo e fortunato con le carte e molto spesso dominava il gioco come padrone o come sotto, con grande delusione delle sue vittime predestinate, tra le quali manco a dirlo c’ero sempre io.
Aniello era solito consolarmi: Affò tu si amicu miu re ssai e ti voglio bene ma t’aggià purta a urmu perché potresti mbriacarti e questo mi dispiace, ma era tutta una scusa; Aniè ma almeno fammela assaggiare, no! non posso! se no tu pigli lu viziu.
Dopo tutto per lui era inconcepibile, che io friscu frescu e cacchiu cacchiu venivo a Bagnoli da Napoli a bermi la birra degli amici bagnolesi e continuava imperterrito a riempire i bicchieri di birra fino all’orlo accorto a non fare la minima schiuma e se l’ingollava tutta, sadicamente, anche succhiandosi la più piccola goccia. Era uno spettacolo a parte. Indimenticabile. Senza le sue uscite il gioco a <padrone e sotto> nel Bar Centrale non aveva alcun senso.
Io alla fine della partita, spesso, ero costretto per la sete a comprarmi una birra e berla da parte in discreta e beata solitudine.
Ma una volta il caso volle che il vento cambiasse e anch’io feci il <padrone>, allora per vendicarmi degli urmi cumulati in tante giocate, riempii sette bicchieri e me li accostai per berli tutti alla faccia dei miei amici colpevoli. Poiché io non reggevo la birra, cercavo di dimezzare i bicchieri, ma Aniello e tutti gli altri non me lo consentivano perché fuori dalle conclamate regole della <passatella>.
Il risultato fu che, nonostante la mia spola continua tra il Bar Centrale e il bagno pubblico sottostante la villetta in piazza, presi una sbornia che mi bruciò lo stomaco e mi impedì di mangiare per alcuni giorni appresso.
Ho frequentato il bar tutte le volte che ritornavo a Bagnoli, anche con la scomparsa di Aniello Patrone, gestito dalla dolce e amichevole moglie Giosa, da Cenzino e la sua Moira e dall’instancabile Marinella che ci lasciò prematuramente.
E adesso anche l’ultimo sacerdote del mio più caro santuario di Bagnoli chiude tabernacolo ed ostensorio e se ne va. Allora carissimo Cenzino auguri e buona fortuna, con infinita gratitudine per tutto quello che il Bar Centrale ha rappresentato nella mia vicenda umana a Bagnoli.
Non so se un giorno potrò ancora tornare e risparmiarmi la visione anonima del Bar Centrale chiuso, intanto mi rassegno e mi preparo a partire anch’io, sentendo che Aniello, Nando, Ciro, Domenico e tutti gli altri mi stanno aspettando impazienti di riprendere il <padrone e sotto> per potermi mandare a urmu, questa volta per l’eternità.
Ho letto da qualche parte, che l’elefante, la più forte e intelligente creatura vivente nella foresta, secondo gli zoologi dotato anche di grande memoria e sensibilità, quando sente che sta per arrivare la sua ora, lascia il branco e con le poche forze residue si mette alla ricerca del luogo dove è nato.
Non sempre ci riesce e quando arriva alla meta, si isola in una grotta, un anfratto e aspetta. Pensa? questo non è dato sapere; molti animali (che brutta parola questa), infatti, non hanno il senso o la coscienza della morte.
Improvvisamente nella foresta risuona l’eco di un barrito, in realtà un lungo sospiro, allora per un attimo tutto sembra fermarsi, tacere e poi subito tutto torna come prima.
Alfonso Nigro