Impressioni di settembre.
L’altopiano del Laceno mi ha accolto un giovedì mattina di settembre con la luce ed il calore ancora rimasti dopo la fine dell’estate, con i lunghi silenzi che anticipano l’autunno e con tutti i suoi buoni frutti della terra.
Per lunghe ore ho calpestato i suoi prati, volgendo di continuo lo sguardo all’indietro per accertarmi che rimanessero impresse le mie orme, perché quando si attraversano luoghi meravigliosi bisogna lasciare sempre i segni lievi del proprio passaggio.
E passo dopo passo ho respirato quella antica armonia che nasce tra gli uomini e il paesaggio, perché l’altopiano del Laceno è il più grande santuario a cielo aperto della Campania, con i suoi alberi imponenti che ne disegnano le volte e lasciano passare i raggi del sole come le vetrate sulle navate di una chiesa; con le luci che si alternano alle ombre disperse per caso e che ti accompagnano fin sull’altare dove si è compiuto l’ultimo sacrificio sotto una grande ruota di acciaio arrugginito.
Un luogo triste, come una fabbrica dismessa o una stazione dove non passano più i treni; come una Pompei a metà, quella di una volta e quella che sarebbe stata.
Il solo luogo in Italia dove gli uomini hanno anticipato il lavoro sporco del virus, chiudendo tutto per lunghi anni e lasciando sul volto di chi è rimasto i segni della rassegnazione, profondi come un insulto.
Su questi pensieri è calata la sera, accompagnata dal suono dei campanacci delle mandrie che annunciava l’ora della preghiera e per un momento mi è sembrato di sentire il profumo inebriante dell’incenso.
Michele Cetta