Nell’era del federalismo differenziato, al momento congelato a causa della inattesa crisi di governo, in attesa che la politica ritorni a gonfiare le gote della retorica, magari in occasione di una prossima campagna elettorale, continua la nostra – del Direttore Gianni Festa e mia – testimonianza sulla questione meridionale.
Questa mattina lo facciamo riprendendo dagli scaffali della libreria un testo raro, un manoscritto conservato presso la Biblioteca provinciale di Avellino e segnalato per la prima volta da Modestino Della Sala nel volume “I manoscritti del Balzo” (Avellino, 1974). Si tratta di due fogli intestati “Camera dei deputati”, che testimoniano il discorso che lo scrittore e uomo politico irpino pronunciò a Napoli, il 7 novembre 1901, nel quartiere Vicaria, nel cortile del Palazzo Municipale e che un secolo dopo è stato edito a cura di Raffaele Della Sala nel prezioso libretto dal titolo Carlo Del Balzo, “La quistione Napoletana. Discorso pronunciato il 7 novembre 1901 nel quartiere Vicaria – Palazzo Municipale (cortile)” (Grafic Way Edizioni, Avellino, 2000).
Il discorso era ispirato alla celebre inchiesta Saredo, che aveva dimostrato il degrado morale della classe dirigente napoletana, collusa con la camorra, dedita ad un commercio della cosa pubblica in cambio di tangenti e di guadagni illeciti. In questo clima di degrado si inserisce il discorso di Carlo Del Balzo, che conferma non solo la sua dirittura morale, ma anche il suo impegno meridionalista, in linea con l’idea della letteratura quale strumento di conoscenza del reale. In tal senso, lo scrittore e uomo politico di San Martino Valle Caudina si mostrava non solo allievo di Garibaldi e della tradizione repubblicana, ma anche di alcuni degli intellettuali meridionali più rilevanti della generazione precedente alla sua. Alludo a Francesco De Sanctis, a Pasquale Villari, a Giustino Fortunato. In particolare, nel discorso sembra rilevante l’influsso delle “Lettere meridionali” di Villari, edite la prima volta nel 1861 e poi riproposte con maggiore profondità, coerenza e documentazione venti anni dopo.
Carlo Del Balzo, riprendendo un concetto intuito con chiarezza dai primi meridionalisti, poi ripreso dallo stesso Guido Dorso, ripercorre brevemente l’importanza di Napoli nella storia della Nazione: “Tutti gli italiani hanno il dovere di guardare a Napoli, di aiutar Napoli, che ha tanta parte nella vita intellettuale d’Italia; che ha tutto nobilmente sacrificato sull’altare dell’amor di patria. Tutti gli italiani hanno il dovere di pensare alla nostra Napoli nobilissima, in cui i poeti sono così come il Sannazaro, che si serbò fedele al suo re nella sventura, quanto tutti lo abbandonarono; in cui il popolo buono può essere credente, ma non è intollerante né feroce, e solo, nel secolo decimosesto, non volle e non ebbe l’inquisizione spagnola; in cui i filosofi, come Giordano Bruno, Vanini, Campanella sono martiri della libertà di pensiero; in cui i sociologi, come Galiani, Filangieri e Pagano sono precursori; in cui i ribelli, come Domenico Cirillo e il conte di Ruvo e cento altri, sono degni di epopea”.
Dopo questo breve elenco, ma significativo, Carlo Del Balzo prorompe: “Tutti gli italiani debbono pensare a Napoli, perché il problema napoletano è problema italiano”.
Come è noto, a Mazzini Giustino Fortunato attribuisce la frase “l’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà”. Con la consueta intuizione propria degli idealisti, degli utopisti, Mazzini aveva compreso il senso reale dell’Unità nazionale, la vera sfida e il vero pericolo insiti nel successo o nell’insuccesso dell’impresa.
Carlo Del Balzo non alimenta facili illusioni. Sa che la sfida è ardua, sa che il male è grave e va curato con grande energia. Sulla camorra erano ormai vecchie di decenni le indagini e le accuse provenienti da Pasquale Villari, che aveva intuito la stretta relazione tra povertà, degrado morale e diffusione della camorra o della mafia al Sud, e che occorresse rimuovere le ragioni sociali alla base del fenomeno delinquenziale. L’analisi di Del Balzo va ancora più a fondo, perché pone in rilievo la stretta relazione tra la malavita e la classe dirigente corrotta, la “camorra in guanti gialli”, che garantisce l’impunità e la proliferazione della corruzione.
In effetti, Carlo Del Balzo già venti anni prima, nel suo “Napoli e i Napoletani”, aveva dedicato un capitolo al fenomeno camorristico e aveva allora scritto: “La camorra ora non è più quella di una volta, ma non è morta, e, diciamolo schietti, non morirà così presto. Essa cammina a braccetto con la vigliaccheria a destra e il comparismo a sinistra. Ogni tanto si fa una razzia di camorristi sorpresi in flagranza, si inizia l’istruzione, i giornali schiamazzano, i magistrati minacciano di sedere in permanenza. Ma che è, che non è? Via facendo l’affare si raffredda, i testimoni sono chiamati quando al dio della camorra piace, nessuno ha veduto o vede più nulla, i cancellieri sbagliano, i cavalieri magistrati si riposano leggendo lettere sottoscritte da persone rispettabili che attestano la moralità dei camorristi, i quali a tempo debito, persuasero i loro concittadini a mandare quelle rispettabili persone, spontaneamente, al parlamento o almeno al Consiglio provinciale. E dopo tutto viene la Camera di Consiglio a dire che si è svolto il clamoroso processo dei camorristi del mercato dei melloni, è una macchia incancellabile nella storia dei nostri tribunali e ricorda gli alguazili spagnoli”.
Carlo Del Balzo, come si vede, non usa mezzi termini, si esprime con chiarezza, con coraggio, liberamente. Sfida la classe dirigente, richiama tutti alle proprie responsabilità. Non è quel “meridionalista di città”, che tanto criticava Carlo Levi, quell’intellettuale, che compie analisi fini e che poi si ritira nel suo confortevole studiolo e riprende a macinare libri e scritti dopo una vampata moralistica. Come avrebbe scritto similmente Manlio Rossi-Doria, il politico deve avere le scarpe sporche, deve andare con i piedi per terra tra le persone, conoscerne e condividerne i problemi, sentire che dietro i fatti ci sono i dolori reali, le frustrazioni, le ingiustizie, la fame, le lacrime vere di un popolo in attesa di giustizia.
Al contrario di Villari, che aveva un atteggiamento progressista, ma fondato anche su una visione realisticamente paternalistica nei confronti del popolo, Carlo Del Balzo è convinto che la soluzione possa essere rappresentata dall’allargamento del suffragio così da consentire al popolo di prendere consapevolezza della realtà e di mitigare gli eccessi e la corruzione della classe dirigente. Lo scrittore irpino sembra essere fiducioso in una sostanziale soluzione della questione meridionale dal basso: “Da questo popolo assetato di giustizia, sorga, alla fine, una voce di riscossa; con la rampogna venga la pena; con la vittoria della gran maggioranza degli onesti, la riabilitazione”.
E continua: “Noi abbiamo bisogno d’aria e di luce; noi abbiamo bisogno dell’ossigeno morale; noi abbiamo bisogno di avere purificata l’origine della vita nostra”.
Carlo Del Balzo auspica la realizzazione di un mondo, in cui possa essere concreta la “giustizia sociale”, che porterebbe anche ad una soluzione della questione morale.
Forse anche Del Balzo si mostra, alla fine, un utopista? Probabilmente, questa domanda retorica è sostanzialmente ingiusta. Le speranze dell’intellettuale erano fondate su un’idea progressiva della storia, che poi nel corso del Novecento ha dimostrato la sua fallibilità. Ma allora, all’alba del nuovo secolo, che prometteva così tanti progressi e vittorie politiche e sociali, queste speranze erano legittime.
Carlo Del Balzo non poteva sapere che di lì a poco le Guerre mondiali avrebbero fatto cenere di tanti ideali, non poteva sapere del “secolo breve” e della sua storia. Non so se 120 anni dopo possiamo essere ancora fiduciosi. Ci viene in aiuto Gramsci con il pessimismo della ragione e l’ottimismo della speranza. Altrimenti, dovremmo ammettere che sia tutto vano e ritirarci nel mutismo delle nostre vite.
Paolo Saggese
(da Fuori dalla Rete, Settembre 2019, anno XIII, n. 4)