Il lungomare di Fiumicino, un tramonto rosso fuoco che incendia l’orizzonte tutto, la mia famiglia con un sorriso forzato in posa per un selfie ed io, in quella cornice così estiva che mi lascio andare, con un nodo alla gola ,ad una mesta riflessione: per un tramonto che arriva, una Alba pronta a partire. Quel giorno assolato del mese di agosto, a malincuore e con tutti i patemi d’animo del caso, avevamo accompagnato mia figlia Alba, diciassette anni appena compiuti, a Fiumicino(RM), da dove il giorno successivo, dopo essersi imbarcata su un aereo della Aerolineas Argentinas, sarebbe iniziata la sua emozionante esperienza d’oltreoceano in Argentina. Sei mesi prima ,quasi per gioco,le avevamo consentito di partecipare alle selezioni per AFS Intercultura, ossia un anno di studi in un paese estero. Confidando nell’esiguità dei posti disponibili ( qualche migliaio in tutta Italia) e nell’elevato numero dei partecipanti, non avevamo però ponderato a dovere un eventuale esito positivo della faccenda, cosa che invece è accaduta. Ebbene, di fronte all’irremovibile decisione di nostra figlia di approfittare di quella che lei definiva una “ irripetibile occasione” e alle sue severe rimostranze circa le nostre reali intenzioni iniziali, dopo una sua lenta e costante strategia di logoramento , avevamo ceduto. Un anno, dodici mesi, 365 giorni, quattordicimila e rotti Km di distanza, ospite di una famiglia di cui conoscevamo ben poco, l’inesperienza e l’ingenuità di una adolescente cresciuta nella protezione delle mura domestiche e sotto l’attenta vigilanza dei genitori (della madre in particolare) , hanno costituito per noi l’assillo quotidiano per quel lungo lasso di tempo, stemperatosi solo negli ultimi mesi.
Da ormai cinque mesi Alba ha fatto rientro nella nostra famiglia. Il bagaglio del ritorno è stato più pesante ed ingombrante di quello della partenza: mille cose da raccontare,mille luoghi da descrivere, un uso disinvolto della lingua spagnola, una cultura , quella latino-americana, conosciuta e metabolizzata e soprattutto mille vite e mille volti da ricordare.
Proprio uno di questi, uno smilzo diciassettenne (grosse scarpe e poca carne) di nome Nazareno, che a sua volta sta facendo la sua esperienza con Intercultura in Austria, da circa una settimana è ospite per le vacanze natalizie a casa mia.
L’altra notte, dopo averli accompagnati all’ennesimo “diciott’anni”( nel loro gergo sta ad intendere il compleanno dei 18 anni) e dopo aver atteso in auto una buona mezz’oretta prima che finissero i festeggiamenti( una sorta di debutto in società per ragazzi e famiglie che vogliono emulare rampolli blasonati) mia figlia si è presenta oltre che con il suo amico argentino, con altri due suoi coetanei , chiedendomi, visto che pioveva, di dar loro un passaggio. Nemmeno il tempo di annuire che questi, dopo aver salutato con un bizzarro accento, erano già belli e sistemati sui sedili posteriori dell’auto.
Un colombiano ed uno svedese: nell’ordine Santiago e Oskar.
Sembra l’inizio di una barzelletta : c’erano un argentino, un colombiano, uno svedese e due italiani in una auto ecc, ecc, ma questo, credetemi, era esattamente il quadro della situazione. In pratica questi due ragazzi facevano parte anch’essi del programma interculturale di studi all’estero ed erano ospiti di famiglie potentine. Reduci dall’euforia dei festeggiamenti e da qualche calice di prosecco di troppo (si dice che sia d’obbligo in queste occasioni), con enfasi ridevano e scherzavano tutti, compresa mia figlia, spiccando un ottimo inglese. La mia auto in quel frangente racchiudeva un microcosmo ove, in perfetta sintesi, si fondevano culture, storie ed etnie diverse. La situazione mi ha divertito non poco. Tra il compiacimento della perfetta integrazione di mia figlia in questo contesto multietnico e una sana invidia per l’entusiasmo che li animava, mi veniva da pensare a come finalmente la globalizzazione , a fronte di tutte le sue evidenti contraddizioni fatte di speculazioni finanziarie e strategie di mercato ad esclusivo appannaggio di grandi multinazionali, in questo frangente spiegava tutta la sua concezione originale: pur nella diversità , la condivisione di valori universali quali pace , solidarietà, fratellanza, cultura. Il cosmopolitismo al grido di “cittadini del mondo” che, pur non sapendo in effetti in cosa consistesse, in età liceale ci aveva affascinato, trovava in quel momento una sua plastica rappresentazione. Nazareno, Santiago, Oskar ed Alba, con la loro freschezza e spontaneità, in quel momento esprimevano una grande apertura mentale e capacità di confronto, una voglia di uscire da quegli spazi ristretti convenzionalmente assegnati loro da una cultura crepuscolare di provincia , ove la difesa del piccolo spazio conquistato e la gelosa cerchia ristretta delle amicizie esclude ogni possibilità di misurarsi , di capire e talvolta superare i propri limiti. Le immagini viste al telegiornale di quel gruppo di idioti, che si definiscono skinhead, che irrompono nell’assemblea di una associazione pro-migranti, ad un tratto però mi balenano nella mente. Li vedo lì, impettiti, rasati ed in posa marziale, sguardo fiero e sprezzante di chi si sente investito di una missione: quella di salvare la purezza della razza italica e di vigilare i confini della cultura minacciati da invasioni e contaminazioni “impure”. E’ così che, nel riproporre un patetico revival di antichi fasti, si rispolvera la vecchia retorica “della difesa del suolo patrio” , che pericolosamente, tra l’indifferenza di molti e il minimizzare di altri , sfocia in un anacronistico e becero nazionalismo. In contrapposizione a quelle immagini tristi di teste rasate, per non dire altro, lo specchietto retrovisore della mia auto mi restituiva invece le immagini di volti freschi e gioviali di ragazzi che, non trincerandosi come codardi dietro un vuoto conformismo fatto di bande di anonimi idioti che ostentano svastiche o altri simboli fascisti, con coraggio e sete di conoscenza, pur rivendicando con orgoglio l’appartenenza all’ identità nazionale del loro paese, si mettono in gioco misurandosi con altre realtà. Nel breve tragitto di ritorno mi scappa una battuta infelice rivolta al colombiano: “e Pablo Escobar (noto trafficante di droga ormai deceduto) come sta?”. Mia figlia indispettita per l’offesa arrecata, mi risponde: “come sta Totò Riina!”, come a dire che ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio, ma che quell’armadio non può diventare un cimitero. Un trafficante di droga non fa dei colombiani tutti dei trafficanti, così come un mafioso non fa degli italiani tutti dei mafiosi. Il pregiudizio, il luogo comune, si frantuma così di fronte ad una semplice risposta che contiene un’innegabile verità.
Ernesto Dell’Angelo 66