Ripercorrere la storia politica di “De Mita Luigi Ciriaco” (come era solitamente indicato sui manifesti, specie quando usava inserire prima il cognome del nome o, in questo caso, dei nomi) significa anche affrontare una “storia simbolica”, cioè la serie di simboli cui il politico si è legato o, in alcuni casi, che il politico ha legato a sé, incarnandoli in pieno (magari per averli fatti nascere o rinascere). Qui ci si limiterà a riproporre in breve quella storia, lasciando agli interventi di giornalisti, commentatori, storici e altre figure il compito di tracciare – in poche cartelle o in pubblicazioni più ampie – una storia decisamente ricca e complessa.
Da un certo punto di vista può sembrare quasi velleitario parlare di storia simbolica per “De Mita”, se si pensa che per almeno quarant’anni è stato legato a un unico partito, la Democrazia cristiana, e al suo simbolo, cioè lo scudo crociato, sapendo che lo scudo e la croce sarebbero tornati – disgiuntamente o insieme – nel corso della sua vicenda politica. Eppure quella storia va fatta, se non altro perché adottando uno sguardo più approfondito possono emergere dettagli, curiosità e ritorni che meritano di non essere tralasciati, nel bilancio complessivo di una figura – come si è detto – complessa e temporalmente molto estesa, non solo per i suoi 94 anni.
Eletto per la prima volta deputato nella IV legislatura (nel 1963), quando sulle schede lo scudo crociato della Dc era arcuato (oltre che rigorosamente in bianco e nero), vide nel corso degli anni – e dalla posizione dei suoi molti e mutevoli incarichi di governo e all’interno del partito – evolvere lo scudo e l’intera grafica di propaganda (oggi si direbbe “comunicazione”) del suo partito. Certamente lui ne comprese l’importanza: non a caso, si deve ricondurre alla sua segreteria democristiana la realizzazione – nel 1986 – della mostra Parole e immagini della Democrazia cristiana e del relativo volume, in cui si ripercorrevano “quarant’anni di manifesti della Spes”, anche grazie all’impegno di Silvia Costa, indicata proprio da De Mita come dirigente di quella struttura pochi mesi dopo la sua elezione alla segreteria (lui guidò il partito da maggio del 1982, Costa arrivò a capo della Spes in ottobre, dopo pochi mesi di direzione di Nuccio Fava).
Democrazia
Di quel volume imprescindibile, De Mita firmò anche la presentazione: “Anche la grafica politica, come il linguaggio – così iniziava – possiede a mio parere caratteristiche sue proprie, un modo specifico di porgere un messaggio, richiamare l’attenzione, spiegare una situazione”, per poi precisare che la grafica politica non poteva essere identica a quella pubblicitaria perché “la promozione di un prodotto non è la stessa cosa che la divulgazione di una idea e di una proposta. Nella società-spettacolo, probabilmente a molti l’indicazione politica parrà fungibile con l’immagine di una qualsiasi merce, ma io attendo ancora su ciò una spiegazione logica e convincente”. C’è da chiedersi se l’abbia trovata mai, anche in seguito; di sicuro, ancora nel 2020, lo si è sentito lamentarsi di parole e discorsi politici dai quali non emergeva “neanche un penziero“.
Nel 1989 terminò la segreteria di De Mita e anche il suo governo (e di quella fase rimane soprattutto una delle battute più corrosive di Andreotti – da lui coniata per la Dc e impossibile da dimenticare anche per chi non lo ha mai amato – legata alla speranza che il partito potesse fare quadrato per difenderlo: “Ai quadrati di De Mita manca sempre un lato”). Ciò nonostante, da presidente della Dc fu candidato ed eletto nel 1992, quando il simbolo del partito era stato ridisegnato (adottando ufficialmente lo scudo crociato rettilineo già elaborato dalla Spes nel 1975) e colorato, con tanto di inserimento del nome nel cerchio, secondo la realizzazione dell’agenzia Brandani e Guastalla.
Dopo averla iniziata come democristiano, De Mita terminò quella legislatura di soli due anni come eletto del Partito popolare italiano: giuridicamente era lo stesso soggetto, ma tra il 1993 e il 1994 si decise che era tempo di tornare all’antico nome sturziano per cercare di voltare pagina e lasciare indietro l’immagine rovinata dalle inchieste sulle tangenti. De Mita fu tra coloro che restarono nella vecchia casa (senza andarsene nel Ccd, nei Cristiano sociali o in altri soggetti), anche se nel 1994 non tornò in Parlamento, visto che i vertici del Ppi decisero di non ricandidarlo per la nona legislatura consecutiva (e lui, che in quella legislatura aveva anche presieduto per qualche mese la Bicamerale per le riforme istituzionali, non la prese proprio benissimo).
Allo scudo crociato, peraltro, non avrebbe voluto rinunciare. Quell’anno, infatti, tra i contrassegni depositati al Viminale si trova anche un emblema denominato Democrazia e libertà, che su fondo azzurro collocava una bilancia a due piatti e, appunto, tre scudi crociati sovrapposti, con i due seminascosti sempre più sfumati: non fu De Mita a presentarlo direttamente, ma era di certo a lui riconducibile. Il Viminale, tuttavia, bocciò quel fregio, ritenendo che fosse confondibile con il simbolo del Ppi; tempo una manciata di ore e quell’emblema fu modi (ficato (si suppone, non senza qualche dispiacere), togliendo di mezzo gli scudi e sostituendoli con la doppia bandiera italiana ed europea (del resto De Mita in quel periodo era ancora europarlamentare).
Fu proprio con quel simbolo che nel 1996, dopo un’altra legislatura breve, De Mita riuscì a tornare a Montecitorio, presentandosi nel collegio uninominale di Mirabella Eclano (quello che conteneva, ovviamente, il comune di Nusco): con il 47,74% si impose, senza bisogno di usare il contrassegno dell’Ulivo che proprio a quelle elezioni politiche fu inaugurato (anzi, in quel modo i dirigenti dell’Ulivo pensarono di aver fatto la scelta migliore, ottenendo i voti di De Mita senza rischiare che la sua immagine connessa alla “Prima Repubblica” e alle sue storture potesse fare ombra alla nuova creatura politica). Nelle bacheche del Ministero dell’interno, peraltro, nel 1996 quel simbolo era stato nel frattempo depositato a nome del Centro di cultura e di iniziativa politica “Leonardo da Vinci” – in rete si trova ancora notizia della sua sede avellinese – e ci sarebbe tornato anche nel 2001, ma tornando all’antico nome (che nel frattempo era stato ripreso, come si vedrà).
Quelle elezioni del 1996, tuttavia erano arrivate dopo un’ulteriore frattura in ciò che restava della Dc, se possibile ancora più dolorosa della precedente. Nella lotta fratricida tra i popolari legati a Rocco Buttiglione e quelli che si riconoscevano in Gerardo Bianco, De Mita scelse i secondi: dopo gli accordi di Cannes non poté più fregiarsi dello scudo crociato tradizionale (se non di qualche suo surrogato), ma non si trovò a disagio con il gonfalone che richiamava il popolarismo e i comuni. De Mita continuò così a operare come parlamentare del Partito popolare italiano, senza lasciare le posizioni di centrosinistra anche nel nuovo quadro della “seconda Repubblica” nel quale stava riuscendo a sopravvivere a dispetto dei suoi detrattori.
Nel 2001 De Mita si candidò nello stesso collegio della Camera in cui era stato eletto cinque anni prima – finalmente una legislatura travagliata, ma intera! – e centrò nuovamente l’obiettivo, superando anzi il 50% (in un’elezione persa dal centrosinistra). Quella volta però, pur facendolo depositare, mise da parte il proprio simbolo con la bilancia e le bandiere e si presentò direttamente con il simbolo dell’Ulivo per Rutelli, adottato nei vari collegi uninominali dalla coalizione di centrosinistra: il decorso del tempo e il risultato ottenuto nel 1996 dovevano aver fatto credere che non ci fosse più bisogno di ricorrere a un simbolo di scorta con cui stipulare un accordo di desistenza.
Se anche fosse andata male in terra irpina (ma quando mai…), De Mita sarebbe stato comunque eletto alla Camera nella quota proporzionale, quale capolista nella circoscrizione Campania 1 (pari alla provincia di Napoli) di un nuovo cartello elettorale, al quale il Ppi aveva concorso, denominato Democrazia è Libertà. Tutti iniziarono a chiamarlo fin dall’inizio “la Margherita”, per via del fiore che Andrea Rauch – lo stesso autore dell’Ulivo – aveva concepito, in una gestazione decisamente accidentata, in base alle indicazioni ricevute da Lapo Pistelli, ma in pochi avevano notato che il vero nome della lista era quasi identico alla dicitura del simbolo depositato nel 1994 e con cui era stato eletto De Mita nel 1996; giusto la “e” tra le due parole principali aveva preso l’accento (e anche per questo, forse, si era deciso di evidenziarla in rosso).
Con il tempo, Democrazia è Libertà (divenuta nel frattempo un vero e proprio partito, in cui i Popolari confluirono sospendendo la loro attività) aggiunse stabilmente “La Margherita” al proprio nome e De Mita rimase lì; nel 2006, ricandidato come capolista – stavolta in Campania 2 – sotto le recuperate insegne dell’Ulivo, fu puntualmente rieletto. Riportano correttamente le biografie che De Mita formalmente fu tra coloro che nel 2007 parteciparono a un’altra operazione politica rilevante, cioè la nascita del Partito democratico, entrando anche nella commissione statuto del nascente Pd, salvo poi sbattere la porta proprio contro la disciplina statutaria che aveva introdotto il limite dei tre mandati parlamentari, che gli avrebbe impedito di ricandidarsi.
Lasciato il Partito democratico con un gruppo di “Popolari per la Costituente di Centro” (non è dato sapere se questi abbiano avuto un simbolo provvisorio o meno), De Mita approdò – con i suoi voti e il suo consenso, a ottant’anni tondi – nell’Unione di centro, con Lorenzo Cesa come segretario e Pierferdinando Casini come leader politico (il nome stava anche sul simbolo elettorale). Non riuscì a farsi eleggere nel 2008 (era candidato al Senato, ma lo sbarramento all’8% fu implacabile), ma tornò al Parlamento europeo l’anno successivo, sempre con il simbolo dell’Udc, ritrovando dunque lo scudo crociato cui era stato legato per tanto tempo. Sempre con il simbolo dell’Udc (che ormai aveva sostituito “Casini” con “Italia”) nel 2014 volle candidarsi come sindaco di Nusco, per succedere al nipote Giuseppe: ci riuscì, con oltre il 77% dei voti.
Cinque anni dopo, quando ormai di primavere ne aveva accumulate 91 – ma aveva fatto suo il detto di Cicerone Nemo est tam senex qui se annum non putet posse vivere – tentò il secondo mandato e, manco a dirlo, lo ottenne, con il 57,93% (e c’è da sospettare che ogni voto perso o non preso per lui sia stato come una stilettata). Il simbolo, però, nel frattempo era cambiato: l’Udc, dopo l’autonomia decisa dieci anni prima, si era riavvicinata al centrodestra e questo a De Mita non stava bene, per cui lui e suo nipote avevano fondato L’Italia è Popolare, che richiamava il passato del leader di Nusco nel nome e nel simbolo, con una croce ricavata tra i colori rosso e azzurro, molto diccì.
L’ultimo passaggio simbolico rilevante a proposito di Ciriaco De Mita si ebbe nel 2020, quando si impegnò personalmente – sempre insieme a Giuseppe De Mita – per ottenere dal gruppo dei Popolari di Moncalieri l’uso del simbolo del Ppi con scudo e gonfalone e utilizzarlo per una lista presentata a sostegno della nuova candidatura a presidente della Campania di Vincenzo De Luca (che pure non aveva risparmiato critiche e parole al vetriolo all’ex segretario Dc). Qualcuno salutò il suo ennesimo impegno con favore, altri pensarono il peggio possibile; in ogni caso, a 92 anni, si parlava ancora di lui, come del resto era accaduto nel 2016, nel celebre dibattito con Matteo Renzi sulla riforma costituzionale (imperdibile il racconto di quella sera – marionetta inclusa – vergato da Chiara Geloni in Titanic).
Tutto questo, anche questo è stato Ciriaco (o “Giriago”, come diventava inevitabilmente nell’imitazione di Mario Zamma del Bagaglino). Sia piaciuto o no, si sia condiviso un viaggio, un miglio, un passo o nemmeno quello, è stato giusto ricordarlo. Gli sia lieve la terra, con la certezza che i #drogatidipolitica – anche coloro che lo hanno visceralmente detestato – non lo dimenticheranno.
Gabriele Maestri – www.isimbolidelladiscordia.it