Una ‘considerazione inattuale’.
E’ innegabile. Anche l’Irpinia mostra segnali preoccupanti di un inquinamento paesaggistico impensabile fino a pochi anni fa. Così come nelle terre del fuoco, lungo l’asse Caserta-Napoli, in cui la devastazione non solo è visibile ma è anche esibita con doverose e impotenti narrazioni su tutti i mezzi di comunicazione possibili.
Basta percorrere la variante di Avellino e rendersi conto. Ma non basta. Per chi ama inoltrarsi nella natura incontra cumuli di ogni tipo di rifiuto abbandonati nei boschi, e lungo e dentro gli alvei di ruscelli e torrenti. E cosa dire dell’inquinamento evidente ma negato pubblicamente del Sabato e degli altri fiumi che bagnano copiosamente una terra considerata qancora integra fino a pochi anni fa. Questa terra in cui si avverte ancora l’aleggiare dello spirito del terremoto. Nessuno ne parla, sembra dimenticato da tutti. Eppure lo si constata proprio in una elusione linguistica, che tutto ciò che è inevitabilmente riferibile a quel fenomeno viene reso come una teoria inapplicabile, nel futuro. Ma è proprio il terremoto la causa che anche l’Irpinia, inevitabilmente, si avvierà a costruire quelle condizioni che sono riconoscibili nel modo di vivere campano. La vecchia Irpinia esiste ancora, ma la sua distanza dal resto del mondo rimane e la caratterizza ancora, malgrado le trasformazioni del terremoto. Appunto, il terremoto ha trasformato tutto, ma non l’irpino, uomo.
Sebbene la quotidianità sociale non sia dissimile da tante altre vite cittadine, a parte la storica differenza tra nord e sud, eppure si percepisce anche nell’Irpinia ciò che rappresenta il paradigma sociale della Campania: la rassegnazione.
E sommata a quella indotta negli ultimi trent’anni dalle trasformazioni della cultura politica che ormai ha diviso l’umanità tra ricchi e poveri in proporzioni mai viste prima ( Piketty prevede uno sconcertante aumento del fenomeno, basta pensare alla robotizzazione delle produzioni) la situazione sarebbe certamente disastrosa.
Ma l’ottimismo storico, la forza dell’evoluzione naturale, ci fa pensare che questo è solo un segmento storico che l’umanità dovrà superare e recuperare valori fondanti di una società nuova.
E sicuramente tutti sono sconcertati di fronte ai problemi che condizionano l’intero globo. Ma ciò che sconforta di più è constatare che il management politico e culturale mondiale è ridotto a una massa di opportunisti ed egoisti. Ma non ci si deve meravigliare. Tutto ciò è voluto. Dai poteri forti. Quelli che comandano senza mai essere visti. Insomma…l’Impero!
Forse oggi qualcosa emerge nella riflessione comune. Forse qualcuno ha cominciato a percepire che il liberismo incontrollato ha svuotato l’uomo di umanesimo enfatizzando il ruolo del profitto. Dunque … consumismo sfrenato, …una ipertecnologia ormai barocca, se non roccocò che trasuda gocce di grasso da ogni dove. Si è scoperto che lo sfruttamento del salario del terzo mondo, o di ciò che era terzo mondo, oggi si chiama dumping, o concorrenza sleale. Grande intuizione del sig. Trump il quale giustamente come autentico americano sta cercando le soluzioni le più sbagliate fondate su un nazionalismo anacronistico. Intanto, la progressione tecnocratica aumenta e stabilizza la asimmetrica distribuzione delle ricchezze.
Se questo è il mondo, cos’è la Campania?
Disoccupazione a livelli insopportabili? Camorra? Corruzione? Clientelismo? Assistenzialismo? Inciviltà? Et cetera et cetera.
Le cause? Ne parliamo da circa un secolo e mezzo. Le soluzioni? Ne sono state provate tante.
Sappiamo bene che in questa regione del mondo tutto è difficile. E’ difficile anche se volete essere onesto! Anche se continuate a fare con cura la raccolta differenziata dei rifiuti, anche se urlate contro i comportamenti incivili degli altri, anche se usate un linguaggio più attento, circolate con responsabilità. Quante volte abbiamo sentito dire: ma a me chi melo fa fare.
Non giriamo attorno al problema. Veniamo al nocciolo.
Basta semplicemente ricordare alcuni dati importanti: a) dal 2001 l’aspettativa di vita in Campania è scesa notevolmente, quando prima era un’anno in più della media nazionale; b) da tutte le inchieste sul livello culturale della Campania ( mi riferisco a quelli del Ministero istruzione, agli INVALSI, a quelli dell’OCSE, in particolare i PISA, l’ultimo presentato poco fa sulla resilienza scolastica) risulta che culturalmente siamo agli posti in graduatoria. Siamo cioè ignoranti!
Mi limito a dire che se non esistesse la Campania e qualche altra regione del sud, l’Italia sarebbe tra i primi posti, e non al 44°, o non agli ultimi tra il numero di laureati.
Dobbiamo dunque avere il coraggio di ammettere che il vero e originario problema che affonda la Campania è l’umiliante primato della ignoranza. Non vale enfatizzare alcune differenze e qualche ‘eccellenza’ che ogni tanto ci vengono ricordate. Ciò che conta sono i grandi numeri. Sono le masse che caratterizzano l’estetica sociale.
Quindi non sviamo il problema, dobbiamo porre in primo piano le condizioni di civiltà della società campana.
Un recente studio (condotto da un beneventano, Fiorenzo Parziale, ed altri) ha dimostrato che le condizioni economiche sono strettamente correlate al grado di istruzione. Ma non è di oggi la scoperta. E’ sempre stato rilevato che il Capitale Sociale è un fattore importante della condizione economica di un popolo.
Ma è noto che per poter attuare una rivoluzione così profonda c’è bisogno di un nuovo impegno sociale e politico e alla luce dei fatti, è cosa impossibile, data la rigidità dei rapporti di potere.
Allora… Cosa fare?
Intanto cominciamo a constatare che l’intellighenzja campana è assente. Non parlo degli intellettuali legati al sistema in sé, ma a quelli che vivono la loro insofferenza isolati da tutti. L’arte, la scuola, il giornalismo… Iniziare ad interrogarsi, a chiedersi quanto, per necessità, ci si omologa, ci si appiattisce. Quanto il conseguimento del successo è raggiunto ricorrendo alle tecniche del marketing professionale e rinunciando a valori che casratterizzano l’essere uomo.
Qualcosa sta cambiando. Ognuno si chieda da che parte sta.
Ferdinando Zamprotta
(da Fuori dalla Rete, Aprile 2018, anno XII, n. 2)