Dopo la pubblicazione del mio testo dal titolo “Raffaele Patroni (1853-1925), bagnolese, capostipite di una nota dinastia di scultori del Mezzogiorno d’Italia, pubblicato nello scorso mese di gennaio su questo giornale, mi è sembrato quanto mai opportuno continuare a dare il mio contributo a questa figura di artista irpino, completando la sua storia scrivendo di suo figlio Diomede Patroni, che ha portato avanti il buon nome del proprio genitore, superandolo per riconosciuta fama. Tutto ciò per tramandare alla futura memoria delle nuove generazioni queste due personalità che hanno dato lustro alla terra natìa, Bagnoli Irpino, essendo infatti emblematica la loro storia di vita e di arte.
Ho pensato, perciò, di far giungere alla redazione di “Fuori dalla rete” questo stralcio critico tratto, per Diomede Patroni, da quanto di Lui scrisse il Prof. Francesco D’Episcopo, filologo, saggista, critico letterario e storico dell’arte, già docente presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli.
Infatti, dell’autore dei due busti in bronzo, eseguiti alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo e dedicati da Diomede Patroni al suo paese natìo per i due due illustri cittadini del Seicento Leonardo Di Capua e Donatoantonio D’Asti, che oggi figurano nella principale Piazza di Bagnoli Irpino, così scrive il chiarissimo Professore D’Episcopo:
“…A differenza del padre autodidatta, Diomede ha però la possibilità, grazie al mecenatismo dei Duchi Mogrovejo di Cannalonga, di frequentare l’Accademia di Belle Arti di Napoli e di conseguire il diploma di Scultura sotto la guida di autorevoli maestri, quali Gemito e Jerace. E quest’ultimo seguirà a Roma dove avrà modo di ampliare e approfondire la propria prospettiva artistica, più che per lo stimolo delle contemporanee correnti futuriste, per l’amicizia del pittore e illustratore trentino Luigi Ratini, di cui lascerà un ritratto in marmo.
La originaria formazione veristica napoletana, maturata nella frequentazione delle opere di D’Orsi, Tedeschi, Bellozzi, per non dire degli stessi Gemito e Jerace, si libera gradualmente di compiaciute punte espressionistiche di marca anche ellenistica, per privilegiare una dimensione sobriamente intimistica e psicologica del manufatto artistico. Questa tendenza, che il marmo de l’Alpigiana e soprattutto il gesso di Bivio documentano esemplarmente, acquisterà una sempre maggiore solidità interpretativa nell’impatto che lo scultore avrà con la realtà artistica americana, in seguito al suo trasferimento, nel 1907, negli Stati Uniti. Il “Giocatore di base-ball” è, senza dubbio, il più significativo prodotto di questa svolta.
La cattedra di Scultura, ricoperta presso l’Accademia di Belle Arti di Chicago, proietta l’esperienza del Patroni in una dilatata dimensione di influssi, che tuttavia nella ritrattistica sembrano ritrovare il loro centro propulsore. Entro la linea di essenziale funzionalizzazione psicologica dell’opera scultorea devono così essere inseriti i futuri contributi ritrattistici, compiuti al suo rientro in Italia, in particolare a Salerno, tra questi i busti di Paolo Emilio Bilotti, del poeta Giovanni Lanzalone, dell’Arcivescovo Gregorio Maria Grasso, dello storico Matteo Camera, oltre che di personaggi del passato: Antonio Genovesi, Leonardo Di Capua, Donatoantonio D’Asti, questi ultimi due nella piazza di Bagnoli Irpino. Un’opera, già accennata, è il monumento funebre a Monsignor Grasso: è formato da una semplice lastra di marmo rettangolare nella quale è inserito il medaglione con il busto del defunto; è sovrastata da un piccolo fastigio con due acroteri laterali di gusto leggermente neoclassico, e ha alla base una iscrizione latina. Il tutto è sostenuto da due semplici peducci tra i quali si inserisce lo stemma del prelato. In quest’opera, commissionata nel 1936, l’artista, legato da grande familiarità al prelato, è riuscito a fissare nella materia, al di là del dato puramente somatico, l’atteggiamento consueto dell’uomo, restituendoci il personaggio in tutta la sua intima vitalità. Il Maestro Diomede, nel modellare la figura dell’Arcivescovo Grasso, così lo descrive: “Monsignor Grasso era una figura eccelsa ma molto umile e non amava esibirsi, tanto che alla sua morte non furono trovate fotografie. Mi era stato commissionato il busto marmoreo per immortalare la sua effigie e mi fu consegnata soltanto una piccolissima foto del periodo in cui Monsignore era giovanissimo seminarista a Montevergine. Osai sfidare la difficoltà e cominciai a plasmare l’argilla concentrando la mia mente sul ricordo della figura a me tanto cara. C’incontravamo tutte le mattine quando andavo ad aprire il mio studio in Via Velia e Monsignor Grasso portava l’estrema unzione ai moribondi o la comunione ed il conforto delle sue dolci parole ai malati. Ci fermavamo qualche minuto per scambiare poche parole ed un saluto. Vinsi la sfida con me stesso, poiché risultò somigliantissimo non solo nei tratti del viso ma soprattutto nella sua espressione; infatti, attraverso il marmo, come scrisse Don Paolo Vocca, riuscii a ritrarre la sua anima, tanto è vero che tutti i salernitani e le Autorità Ecclesiastiche dell’epoca rimasero strabiliati”.
Dino Vincenzo Patroni
(da Fuori dalla Rete, Marzo 2022, anno XVI, n. 2)