C’è questa condizione, la nostra, che ci sembra tanto sfuggevole nel suo presente che pare appartenere continuamente ad un passato da narrare o ad un futuro da programmare, un presente perennemente sospeso tra l’uno o l’altro, un presente caduco e, oserei affermare, inesistente.
Questo tempo che scorre col suo moto inesorabile si fa beffe del mondo per un suo incedere vorticoso, o magari siamo noi a non saper ancorare al presente il suo impetuoso corso? E’ un tempo avido nel concedersi o, piuttosto, magnanimo?
Possiamo rispondere a queste domande con Seneca: “Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto”. La vita ci dà tutto il tempo che ci occorre per non buttarla, siamo dunque noi che decidiamo se una vita sia breve o lunga, se il tempo debba essere implacabile nel suo disperdersi indietro o in avanti o, invece, esso debba essere fermato nel presente per poterlo sentire, realizzarne la sua presenza, poterlo vivere avendo consapevolezza di vivere non sprecandolo in maniera inessenziale. Il tempo può scorrere quanto vorrà e lo farà, ma siamo noi a decidere cosa deve fare intanto, così che alla fine potrà cessare senza che esso sia stato avido nel suo concedersi, e ne avanzerà anche.
Ma in che modo possiamo vincere sul tempo? In che modo il tempo di una vita può bastare? Quel presente, ci dice Seneca, quell’istante che è portatore di eternità da ricercare, risiede nella saggezza. Il dominio razionale del sé rende intenso e fecondo ogni istante, la ricerca del sapere non brucia nessun attimo, ogni giorno che passa all’insegna della saggezza è una vita. Ma come le cose più preziose, e il tempo è il bene più prezioso dell’uomo, è facile dissipare tutto in faccende che ingannano e distraggono il dominio che dovremmo avere sul tempo, che non è mai breve se si concede a se stessi e a interrogarsi continuamente su questo sé.
Questo tempo non ha a che fare con l’affaccendarsi, e nemmeno con lo sfaccendarsi. Una persona indaffarata e in preda a mille cose da fare, molte mosse dalla sua ambizione (che è sempre legata ad un interesse verso il consenso degli altri), che occupa quasi tutto il tempo per gli altri o per un futuro da vivere, non lasciando quasi nulla per sé e per il presente, si troverà a vivere una vita breve anche se dovesse vivere cent’anni, perché buttando l’istante e la ricerca della saggezza, ha buttato via tutto il tempo: non ha tempo per dedicarsi un po’ di tempo.
Nella ricerca della saggezza, attraverso la filosofia, l’uomo interroga se stesso e a volte trova anche le risposte, sul senso proprio di quel tempo che, in quell’istante, lo rende partecipe, sulla comprensione profonda della vita. Non ha a che fare dunque nemmeno col tempo libero, dell’oziare o dei vizi o del viaggiare, se quel tempo non si misura con il sé, e quindi con il presente (che solo con la saggezza può essere vissuto). Non è la ricchezza, non è il potere o il successo, non è la vanità estetica cronica del nostro tempo di piacere sempre e a tutti, non è l’amore e nemmeno l’amicizia, una vita sarebbe breve e inutile in tutti questi casi, anche se avesse tutte queste cose e durasse cent’anni; se non contempla mai la ricerca della verità, dell’amore per la sapienza (filosofia), della saggezza, una vita sarà in ogni caso una vita troppo breve e senza tempo, un presente e un tempo mai afferrati.
Tra i grandi pensatori del passato vi sono istanti di eternità, in quegli istanti si ferma il tempo, in quell’istante si raggiunge l’eternità e la morte non si teme, si è immortali. Dopo aver letto “La brevità della vita” di Seneca, tutte le faccende di un attimo prima si sono rivelate nel loro essere: dissipatrici di tempo; potevo non morire più, o morire subito dopo, poco importava, ero un po’ più saggio e il presente si era fermato con me, su di me, per me. Avevo vissuto davvero per una buona ora. Un istante di eternità mi aveva reso immortale o non curante del tempo e della morte: nella saggezza impareremo anche a morire, che è ben più difficile dell’imparare a vivere. L’agognata felicità, probabilmente, risiede nelle saggezza, solo del saggio sarà la sua autentica rivelazione.
A noi dunque, tra le innumerevoli faccende quotidiane fintamente utili, provare a considerare anche l’idea del tempo come primaria, irrimandabile e irrinunciabile condizione da valorizzare, ossia di rammentare, in tutto questo tempo che disponiamo, che dovremmo iniziare a vivere una nuova vita fatta di presente, di istanti, di domande e di risposte, di sapienza, di saggezza, di conoscenza, di filosofia… E poi, magari, anche grattarci durante. Quando starà per finire il nostro tempo, se ne vorremo ancora, vorrà dire che l’avremo sprecato, per questo quasi nessuno è pronto mai a morire, perché non gli è bastato il tempo di una vita intera.
Trascorriamo il tempo e lo vediamo passare inerti, speriamo sempre che esso trascorra in fretta per fare altro (ci chiediamo spesso cose tipo “quando arriva…”, “quando finisce…”), ci divertiamo a uccidere il tempo nell’attesa che il tempo ci uccida, rimandiamo quasi sempre il tempo presente vivendo senza viverlo e rifugiandoci in un tempo assente, lo evitiamo e lo temiamo.
Si vive dunque senza tempo o per un tempo troppo breve, dissipando con mille affanni ed esercizi inutili tutti gli istanti di eternità che si potrebbero vivere per davvero, perché il tempo è una condizione che non dovrebbe mai sfuggire alle nostre volontà: ogni istante può valere una vita, un’eternità. E’ questo l’unico modo per migliorare l’umanità, l’unico modo per battere il tempo, l’unico modo per sconfiggere la morte.
E’ la relatività del tempo: “Per quanto tempo è per sempre? A volte solo un secondo.”
Alejandro Di Giovanni
(da Fuori dalla Rete, Marzo 2019, anno XIII, n. 1)