La storia del coraggio di una donna a Bagnoli Irpino 70 anni fa.
Bagnoli Irpino. 15 ottobre 1951. Una ragazza di 25 anni sta tornando a casa, ignara del fatto che lungo la strada del ritorno tre uomini l’attendevano per rapirla. Quella ragazza era mia madre, Giovanna Nigro.
Un racconto prima sussurrato, poi via via più ricco di dettagli che crescevano con i miei e i suoi anni. Molto dopo il giornale, recuperato nei mesi successivi alla sua morte, quando si mettono in ordine pensieri, cose e ricordi. Un comprensibile riserbo per tenere a bada ricordi troppo dolorosi. Settant’anni fa la “tradizione” di rapire a scopo di matrimonio la malcapitata di turno era radicata, spesso era l’unico modo (dunque concordato dai futuri sposi) per convolare a nozze nonostante i veti incrociati di famiglie contrarie, ma a volte era un atto di violenza che non aveva nemmeno bisogno di essere giustificato, in nome di leggi non scritte ma ugualmente indiscutibili, perché non oggetto di discussione: “così va il mondo”.
Era il caso di mia madre Giovanna, ennesima vittima della tradizione ma che vittima non volle rimanere. Con un colpo di genio e d’astuzia “convince” il suo sequestratore a riportarla a casa, fingendo di acconsentire a sposarlo. È un attimo: riesce a sfuggirgli e a trovare rifugio tra le mura domestiche. Uno stratagemma che avrebbe pagato caro il mese dopo, quando lo stesso commando, stavolta di cinque membri forse per evitare imprevisti di qualunque tipo, torna a sequestrarla davanti agli occhi terrorizzati sua madre Maria. Due giorni di peregrinazioni tra le montagne di Bagnoli e Montella alla mercè di uomini incattiviti dall’onta di essere stati presi in giro da una donna. Due giorni di terrore che non credo si possano immaginare e su cui non voglio indugiare, una discesa agli inferi per lei e per i suoi rapitori, con una differenza: la parte( vittima o carnefice) che tocca ad ognuno, e nel ruolo di carnefici i suoi rapitori avevano smesso di essere uomini in quelle quarantotto ore.
Poi il rientro a casa, tra mancanza di forze morali e accettazione rassegnata di un destino non scelto ma subito: il matrimonio riparatore, quello contro cui si battè Franca Viola 15 anni dopo ma in tutt’altro contesto culturale, forse più pronto ad accogliere e comprendere un gesto dalla portata rivoluzionaria.
Difficile dire cosa abbia spinto mia madre a ribellarsi e a denunciare, dopo qualche esitazione iniziale, ma credo di saperlo: la percezione di sé come persona con una volontà, con una dignità che non aveva mai perso nemmeno nel momento in cui credevano di avergliela tolta, la convinzione di non meritare né come donna né come essere umano una vita non sua, una scelta non sua. Se qualcuno aveva provato a spezzarle il respiro, non aveva spezzato la sua libertà perché non c’era e non ci sarebbe potuta essere vita senza libertà.
La libertà non può tacere, non può contemplare il silenzio: nelle parole trova una delle sue espressioni più alte. Quelle parole, pronunciate da mia madre nella caserma dei Carabinieri, che dovevano suonare per forza come un doloroso “J’accuse”, sono state il più grande atto di libertà e di amore verso di sé, l’inizio della vita che meritava di avere, il diritto di far sentire la sua voce, di rivendicare giustizia, come donna e come persona. Forse nemmeno lei aveva capito il gesto dirompente che aveva compiuto. Non lo aveva capito la società di allora, come ben si evince dal titolo dell’articolo in prima pagina sulla cronaca di Avellino:” RAPITA DUE VOLTE UNA GIOVANE DI BAGNOLI IRPINO-CONDANNATO A TRE ANNI DI RECLUSIONE IL “FOCOSO” AMMIRATORE.
Un titolo scandalosamente indulgente, come indulgente è stata la sentenza, verso chi era stato portato in tribunale per sequestro e lesioni aggravate, ma che la dice lunga sul clima culturale di quegli anni che tutto sommato “comprendeva” il reo e guardava con stupore ad una donna che aveva osato rompere gli schemi, 15 anni prima di Franca Viola, sempre nel profondissimo sud, in un entroterra geografico e di pensiero che considerava le donne come oggetti, merce di scambio o strumenti per affermare e continuare a perpetuare schemi di potere e relazioni sociali unidirezionali.
Le rivoluzioni, piccole e grandi che siano, e che poi contribuiscono a far andare avanti la storia e la società cominciano da gesti come questi, atti di ribellione della coscienza, più forti delle convenzioni sociali, della morale imperante che predilige chi si adegua e mette all’angolo chi non è disposto a tacere.
Che a fare tutto questo sia stata una donna di Bagnoli Irpino 70 anni fa mi riempie d’orgoglio. Che quella donna fosse mia madre mi trasmette un senso di ammirazione sconfinata.
Non si nasce donne: si diventa
(Simone de Beauvoir)
Maria Varricchio
(da Fuori dalla Rete, Agosto 2021, anno XV, n. 4)
IL GIORNALE DELL’EPOCA…