Fiabe popolari: La morte ubriaca

A cura di Grazia Russo (Thewam.net)

Grazia Russo, avellinese nata a Bagnoli Irpino e laureata in Lettere Moderne, ha raccolto le fiabe popolari dalla viva voce di anziani narratori e le ha elaborate, badando però a non alterare il magico mondo popolare di orchi e di maghi, di re e di folletti, di luoghi fatati e castelli incantati.

Il testo che segue fa parte della raccolta “La gallina lavandaia”. Il libro comprende anche schede didattiche che aiutano i piccoli lettori ad approfondire gli aspetti contenutistici, a individuare gli elementi grammaticali e a sviluppare la loro creatività attraverso varie proposte operative.

In periferia, lungo la strada che porta a Napoli, c’era un’osteria. Il padrone, Mastro Saraga, quando al mattino si alzava, appendeva il ramo di gelso all’esterno della bottega e allegramente cantava:

All’osteria di mastro Saraga
si mangia, si beve e non si paga!

Una volta passò di lì Gesù con tutti gli apostoli. San Pietro disse: “Avete udito? Qua si mangia a sbafo. Ed io appunto non ci vedo dalla fame”.

Gli apostoli e Gesù entrarono di corsa e mangiarono tante pietanze squisite. Al termine del pranzo Gesù si rivolse all’oste: “Buon uomo, noi vogliamo ringraziarti per la tua generosità”.

“Andate con la Madonna, non mi dovete nulla”. Rispose l’oste.

Ma poi riflettendo, aggiunse: “Veramente qualcosa la potreste fare per me”.
“Chiedi pure!”. Lo sollecitò Gesù.

“Dietro l’osteria ho un orto con un albero di fichi, ed io non riesco mai a mangiarne uno, perché chiunque passa si fa da padrone e se ne coglie quanti ne vuole. La grazia che vi chiedo è che chi sale sulla pianta, vi resti attaccato e non può più scendere”.

“Tutto qua?”. Fece Gesù e benedisse l’albero.

Passarono i mesi e un giorno mastro Saraga, appena vide l’albero colmo di bei frutti, salì e finalmente poté farsi una scorpacciata di fichi.

Un’estate di molti anni dopo la pianta non portò alcun frutto. Mastro Saraga allora chiamò un taglialegna e gli ordinò di abbattere l’albero, e dal suo legno chiese di potergli ricavare un fiasco.

“A che ti serve?”. Chiese incuriosito il taglialegna.

“So il fatto mio”. Fu la risposta dell’oste.

Il taglialegna, obbedì senza parlare, segò l’albero, costruì un fiasco con lo stesso legno e si congedò.

Trascorsero i mesi, gli anni, le stagioni, e intanto l’oste si faceva sempre più vecchio e stanco.

Giunse il giorno anche per lui di abbandonare questo mondo.

Bussò alla porta di casa sua la Morte, la quale, disse: – Caro Saraga, è giunta la tua ora.

“Prima che venga con te, ti chiedo un favore. Vorrei fare l’ultima sorsata del mio buon vino. Ma, involontariamente, è caduto dentro il tappo e il vino non scende più”.

“Dà a me, lo sturo io. – e si infilò nel fiasco”.

L’oste lesto, prese un altro tappo e imprigionò la Morte nel fiasco: – Ah, adesso lì sei e lì resterai!

Che successe, però? Poiché la Morte era imprigionata da molto tempo, sulla terra nessuno più cessava di vivere.

Finché, un giorno, Gesù, si recò all’osteria di mastro Saraga.

“Ti pare giusto – rimbottò l’oste – tenere la Morte prigioniera nel fiasco? La terra è zeppa di persone anziane che la invocano e le loro grida sono giunte fino in cielo”.

Mastro Saraga, ormai più vecchio della stessa Morte, toglie il tappo dal fiasco e libera la Morte che riprende il suo cammino sulla terra in lungo e in largo.

Ubriaca com’era per il lungo tempo trascorso immersa nel vino, non riconosce più bene l’età e la salute degli uomini e ghermisce alla cieca, i vecchi come i bambini, i malati come i sani.

Per questo motivo, ancora oggi, c’è chi impreca: “Mannaggia la Morte ubriaca!”

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