Per la prima volta in 75 anni, in piena emergenza, gli italiani hanno avuto finalmente chiaro il significato profondo dell’articolo 1 della nostra Costituzione (“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro…”). Il lavoro, sì, il lavoro senza sosta e rischioso di medici e infermieri, ma anche di categorie poco visibili in tempi normali: i docenti che hanno scoperto di poter essere flessibili, camaleontici e digitali; gli addetti alle pulizie e all’igiene pubblica, che ci hanno evitato una catastrofe; i dipendenti e soprattutto le cassiere dei supermercati, che hanno corso forti rischi ogni giorno. I braccianti agricoli, diventati introvabili e quindi preziosi, anche quelli dalla pelle diversa (troppo facile pensare: l’avevo detto…), per evitare il disastro all’agricoltura. Tutti normalmente ignorati e dei quali, in questi mesi, si è capito l’importanza.
Senza il lavoro di tutti non c’è futuro. Non c’è vita sociale ed economica senza il lavoro, da quello di grande responsabilità a quello più umile.
Ecco perché io credo che il Primo Maggio di questo 2020 sia una Festa del Lavoro più importante del solito. Perché abbiamo finalmente capito cosa volessero dirci i nostri Padri Costituenti. E poi perché di conseguenza, abbiamo acquisito la consapevolezza di dover riflettere sul lavoro, ai tempi del virus: sul lavoro sospeso di tanti che sono a casa, professionisti, artigiani, commercianti e cassintegrati; sul lavoro perduto di quanti non ce la faranno a conservarlo; sul lavoro purtroppo nero che per molti ha addirittura smesso di essere l’unico modo per sbarcare il lunario.
Occorre rimettere il lavoro al centro dell’azione politica ed economica, dunque. Non abbiamo altra scelta. Ma dobbiamo farlo con atti concreti.
Le istituzioni europee, ad esempio, potrebbero richiedere agli Stati di garantire non il rispetto di parametri finanziari, ma il lavoro. Non solo percentuali di deficit e debito sul PIL, ma anche e soprattutto percentuali di nuovi posti rispetto al numero di occupati. E potrebbero sanzionare non chi spende qualche miliardo in più, ma chi non offre lavoro ai giovani, chi crea cassintegrati, chi non recupera alla vita civile emarginati e disperati. Del resto la piena occupazione è una manna in tasse e contributi per le casse dello Stato, mentre la disoccupazione, come sappiamo bene noi irpini e meridionali, è il miglior terreno per far crescere clientelismo politico e criminalità organizzata.
Le leggi finanziarie, insomma, dovrebbero essere non “di Stabilità” ma “di Sviluppo Equo”, perché farebbero riferimento non tanto alla finanza quanto all’occupazione.
Perché solo il lavoro, quello vero e adeguato alle competenze di ciascuno, può dare dignità all’individuo. Non solo: come abbiamo potuto constatare negli ultimi mesi, una persona che lavora ha una preziosa utilità sociale, non un ruolo semplicemente economico.
Questo dice, in fondo, la nostra Costituzione.
In quest’ottica, il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non è un approdo sovversivo, ma pienamente giustificato e anzi naturale. E questa è un’altra cosa sulla quale riflettere.
Sono solo sogni?
A chi sorride scettico, perché pensa che il sistema attuale sia il migliore possibile, io dico: sì, forse il mio mondo è pieno di castelli in aria, ma sicuramente il tuo è pieno di macerie vere…
Luciano Arciuolo