“Il paese è reduce da una lunga e sfiancante ostilità fatta di discutibili, schematiche, contrapposizioni tra onesti e disonesti, buoni e cattivi, competenti e incompetenti, che ha prodotto soltanto macerie, alzato artificiosamente muri, alimentando livori e risentimenti; e prodotto quasi il nulla in termini di progetti, infrastrutture, opere e servizi pubblici. Non è stata mai nemmeno abbozzata in tutti questi anni una strategia volta a favorire lo sviluppo del territorio, a migliorare la qualità di vita delle persone. Siamo fermi, letteralmente fermi, a quell’idea di sviluppo turistico immaginato settant’anni fa da Tommaso Aulisa. L’economia del comprensorio Bagnoli-Laceno, legata al turismo, artigianato, agricoltura e castanicoltura, è letteralmente crollata, in ginocchio. I pochi imprenditori rimasti faticano a tenere in piedi le loro aziende, tante famiglie sono in difficoltà, sull’orlo della povertà, cresce la solitudine dei nostri anziani, dilaga vertiginosamente l’emigrazione, si spopolano i nostri borghi, si deprezza inesorabilmente il nostro patrimonio abitativo”.
Così scrive Mimmo Nigro sul blog di pt39 del 24 agosto c.a. Parole pesanti, veritiere, che si commentano da sole.
Ma, cerchiamo di capire se il caso di Bagnoli, e dei suoi abitanti, si discosti o meno da quelli degli altri paesi presenti non soltanto nell’hinterland irpino.
L’agricoltura non ha mai avuto, a Bagnoli, la fortuna di quei paesi dove la stessa viene praticata in modo continuativo, con competenza e abilità, per il seguente ordini di motivi: non abbiamo i vigneti di Taurasi, di Montemarano, di Castelfranci, di Paternopoli e di tanti altri paesi che hanno reso famosi in tutto il mondo i vini Irpini; non abbiamo frutteti, non abbiamo aranceti, non abbiamo grandi estensioni latifondiste (fatta eccezione dei duecentoventi ettari del Laceno, a lordo dell’area lacustre) da adibire alla cerealicultura come quelle di Aquilonia, di Calitri e Lacedonia. Nel 1947 fu imposto, ai bagnolesi, finanche la restituzione al demanio di quei pochi terreni dissodati abusivamente dagli stessi sul Pianoro Laceno per motivi di sopravvivenza, al fine di evitare danni all’integrità della sistemazione idraulica dell’alto bacino del Sele. Il prefetto di Avellino pro-tempore, fu l’artefice della bocciatura dell’opera di contadinizzazione precisando, con apposita relazione particolareggiata al Ministero dell’Agricoltura, che la manodopera locale era assorbita in gran parte dalle utilizzazioni boschive e dalla pastorizia, e che la coltura agraria non era altro che una forma di economia sussidiaria e integrativa delle altre. Un passatempo, a quanto pare.
“Economia sussidiaria e integrativa delle altre”. Già! Le altre. Ottant’anni fa e fino agli albori del nuovo secolo, la pastorizia e le “utilizzazioni boschive”, con la castanicoltura, venivano utilizzate da buona parte delle famiglie del paese. Ognuna coltivava il proprio pezzetto di terreno che, parafrasando Annibale Cogliano, (saggista ed economista) rappresentava “Libertà dal servaggio ed esplosione di vita”; la “Piccola Industria”, veniva praticata da più famiglie, grazie al serbatoio di legname che offriva loro il patrimonio boschivo, che alimentava la produzione di piccole e grandi opere di cui si servivano i paesi limitrofi: armadi, sedie, porte, finestre, tavoli che, con l’apporto del lavoro dei pastori, abbondantemente presenti sul nostro territorio, che fornivano prodotti caseari (formaggi, caciocavalli, ricotte e vari latticini) e lana per i lanifici non soltanto della sola nostra provincia (Gerardo Nicastro era l’uomo di fiducia nella raccolta dei velli per il lanificio Gatti di Roma e per numerosi lanifici del Nord. Ora pare non serva neppure per l’imbottitura dei materassi); ognuno aveva il proprio castagneto, e quando non c’era il possesso giuridico dello stesso, si ricorreva all’affittanza, da cui traevano entrate finanziare che consentiva loro di provvedere alle necessità delle famiglie e all’accumulo del risparmio in modo cospicuo.
Oggi non più! Un lontano parente del Covid ha raso al suolo anche il pensiero di poter ritornare alla certezza e alla tranquillità del guadagno, che aveva la forza di smuovere l’economia del paese.
Sì, c’è disoccupazione e la fuga dei giovani verso altri lidi. Cosa assai normale: se non c’è lavoro, c’è disoccupazione! Se non siamo stati capaci, noi bagnolesi, di sfruttare industrialmente in forma privata e politica il migliore prodotto dei nostri boschi (circa seimila ettari di faggeta pura, conifere e piante di ogni tipo), è inutile piangersi addosso!
I tartufi, col passare degli anni vanno sempre più diminuendo, vuoi perché gli addetti alla cavatura la eseguono in maniera aggressiva, ignorando le apposite norme di legge per la salvaguardia delle produzioni future, sia perché sono preda dei cinghiali che, a centinaia, sciamano liberi sulle nostre colline distruggendo le tartufaie e tutto quanto è fonte di reddito per l’uomo. Alle castagne, come dicevo dianzi, ha pensato il cinipide (ennesimo regalo venefico della Cina) e pare che la produzione stia dando timidi segnali di ripresa, dopo molti anni di stasi.
Così, tutta la ricchezza del paese se ne va a ramengo.
Credo che ai giovani nostrani manchi la materia e non l’intraprendenza. Se quest’ultima c’è, perché fuggire? Buona parte di essi sono possessori di diplomi e lauree. Sono colti e responsabili. Per loro e per tutta la gioventù italiana il Governo centrale ha messo a disposizione vari tipi di finanziamenti, come sta facendo con le Startup, (e altre iniziative per incentivare il lavoro), nate per convertire, o per creare, “lo status quo” attraverso l’avviamento di una nuova impresa e per innovare. Perché non approfittarne? Perché non fare rinascere la Piccola Industria? Perché non imitare l’Araba Fenice e promuovere la rinascita dalle proprie ceneri? Spero abbiate capito che dall’alto non scenderà più la manna per saziarci. Dovete essere voi a procurarvela con la vostra intelligenza. In Irpinia, ogni posto di lavoro nelle fabbriche è costato la vita a migliaia di vittime del terremoto (2.914 morti e 8.848 feriti) Sì! Il terremoto ha indossato i panni del “datore di lavoro” negli anni ’80: in cambio, ha preso dieci, quindici, e anche venti e più vittime per ogni singolo ingresso dei sopravvissuti nel mondo del lavoro. Se non ci fosse stato quel maledetto sisma, non avremmo avuto né l’EMA, né la FERRERO, né altri opifici che, per fortuna, sono ancora attivi sul nostro territorio. Cosa aspettiamo? Vogliamo che si ripeta il macabro, lercio, baratto perché il Governo possa intervenire e tenderci la mano?
I Comuni, poi, sono inermi come il punching-bag, non hanno spazio in tutto questo. Sono stati voluti per consentire ai cittadini di sfogare la loro rabbia. Essi stessi sono in difficoltà, e credo abbiano bisogno della badante per continuare a vegetare.
Viviamo tempi difficili e l’arricchimento subitaneo non esiste più!
Anche Tommaso Aulisa si era impantanato, verso la fine della sua lunga attività politica, nei suoi sogni di sviluppo del territorio e, certamente, non per colpa sua. Era rimasto solo. Erano venuti meno i puntelli essenziali per poter reggere i piani fantasiosi che lo avevano accompagnato durante il percorso verso la notorietà di amministratore competente, illuminato, che appariva sui giornali dell’epoca abbracciato con Pasolini, ETTORE Scola e Carlo Zavattini, i cosiddetti padri nobili della cultura e della cinematografia. Ma lui non gioiva della notorietà e della favolosa amicizia: alla notorietà anteponeva la necessità di dare lavoro ai disoccupati; a come dare una casa ai senza tetto, allo sviluppo turistico del Laceno, (sempre più preda dei paninari) alla fonte governativa dove attingere le provvidenze finanziarie per la realizzazione delle opere urbane. Imprese assai difficili, quasi come scalare a mani nude una parete del Cervino essendo il paese, all’epoca, inadempiente nel versamento dei tributi al Governo Centrale. A guidarlo in questi approcci erano: Enrico Troisi, il Segretario Comunale al quale va riconosciuta una profonda competenza giuridico-amministrativa, Gino Iuppa e Aniello Corso, esperti navigatori nei gangli dello sviluppo socio-economico del paese. Personaggi che, oggi, sarebbero stati provvidenziali alla sistemazione, non soltanto dell’assetto organico, ma dell’insieme dell’Ente che, da come è stato ridotto, somiglia per certi aspetti più al palcoscenico di un decaduto teatro di provincia, abbandonato per l’insipienza di attori, sceneggiatori e registi.
Una cosa, però, è certa: sta ritornando ad agitarsi e a muoversi, furtiva e misteriosa, nella piazza del paese, la presenza dei soliti soloni, simulacri inossidabili e crepuscolari, che nel modo con cui si muovono e confabulano fanno capire che bolle in pentola l’ennesimo colpo di stilo nelle reni dei cittadini. Sono gli stessi scontati e convenzionali protagonisti che, nel triennio precedente, avevano dato vita all’esecutivo che ha consegnato il Comune nelle mani del Commissario Prefettizio.
Una volta si chiamavano “attivisti”. Dopo qualche lustro divennero “spin doctor” e, infine, “influencer”. Una sciccheria che mal si adatta agli scriteriati sommersi operatori, che conosco molto, molto bene. Gli influencer di cui parlo, non sono quelle figure di professionisti che nella campagna elettorale mettono sù uno staff per consentire, al meglio, lo svolgimento della campagna medesima e che, nel contempo, forniscano anche un’immagine di grande significato nel presentare agli elettori il diretto candidato, interessato al raggiungimento di un positivo risultato finale. NO! Loro sono quelli che non badano alla forma: ti fermano per strada per elemosinare un voto; s’intrufolano con sfrontata autorevolezza nelle intimità delle famiglie, per chiedere alle stesse l’appoggio alla lista elettorale per la quale si adoperano. Sono esseri negativi che, a qualsiasi partito appartengano, sono da emarginare. Perseverando nel loro comportamento, offendono la propria e l’altrui intelligenza. La politica che loro adottano non è quella che conduce alla trasparenza, alla indipendenza di pensiero (e all’uso cauto, ponderato, del libero arbitrio), non quella immediatezza astratta, filosofica, ma quella che consente anche alle persone semplici, di muoversi, di ascoltare, di fare quello che per loro è cosa buona e giusta e, soprattutto, di votare liberamente per chi “cavolo” vogliono.
Detto questo, non tocca a me da semplice cronista implorare (sì, proprio così, implorare) le famiglie degli “invalidi” e delle persone anziane affinché, in occasione delle imminenti votazioni amministrative, possano provvedere esse medesime al trasporto dei propri congiunti nei seggi elettorali di competenza per l’espletamento del voto. Non diamola vinta ai summenzionati personaggi! Anzi, se lungo il percorso che conduce ai seggi dovessero incrociare qualcuno di loro, lo prendano pure a bordo della propria auto perché, per i motivi sopra esposti, tra i diversamente abili quello che nasconde il vero handicap potrebbe essere proprio lui, l’influencer.
Antonio Cella