Se molti di noi hanno sofferto durante il periodo di blocco dovuto al Covid-19, esistono altrettante persone che da molto tempo hanno scelto l’isolamento come condizione permanente. Non studiano, non lavorano, non vivono fuori dalla propria abitazione. In Giappone sono chiamati “Hikikomori”.
Il termine “Hikikomori” in giapponese significa letteralmente “stare in disparte” e viene utilizzato per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a molti anni), rinchiudendosi in casa, senza alcun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i propri genitori. Di questo fenomeno nato in Giappone, ma sempre più presente in tutto il mondo, si inizia a parlare negli anni Ottanta, periodo in cui il Paese nipponico inizia la sua ascesa nei mercati internazionali, incrementando la propria potenza economica e instillando il credo per cui la felicità personale si raggiunge soltanto attraverso la propria realizzazione lavorativa. Il numero di Hikikomori nel Paese è salito vertiginosamente a cavallo tra gli anni ‘90 e l’inizio dei 2000: inizialmente se ne contavano qualche migliaio, ma in seguito ha oltrepassato il milione. Fenomeno di non facile comprensione, non viene ancora riconosciuto come patologia psichiatrica, anche e soprattutto perché le cause e le motivazioni che portano alla scelta dell’isolamento sono diverse, numerose e spesso peculiari.
L’Hikikomori è una pulsione all’isolamento sociale che può avere numerose concause (familiari, sociali, scolastiche, ecc.), ma che origina sostanzialmente da una propria valutazione personale della realtà e dell’ambiente circostante: un rifiuto cosciente di far parte della società. Uno dei comportamenti ricorrenti in queste persone è l’inversione del ciclo sonno-veglia, che consente loro di diminuire il proprio senso di colpa. Molti soffrono di forte ansia e frustrazione dovuta all’incapacità di stringere relazioni o hanno, ad un certo punto, sofferto una forte depressione esistenziale che li ha sprofondati in uno stato d’inattività. La scienza per ora non lo considera come conseguenza di uno stato depressivo poiché, se così fosse, non avrebbe senso utilizzare un nuovo termine per una patologia ampiamente conosciuta da tempo. La psicologia sociale ha, quindi, provato a individuare quattro differenti motivazioni che causano questo ritiro volontario dalla vita sociale. La prima è di natura caratteriale: ragazzi spesso intelligenti, ma anche particolarmente introversi e sensibili, hanno difficoltà ad instaurare relazioni soddisfacenti e durature, così come nell’affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni della vita. La seconda riguarda l’ambito familiare: l’assenza emotiva del padre e l’eccessivo attaccamento alla madre sono indicate come possibili cause, soprattutto nell’esperienza giapponese, in cui la figura paterna mancante o poco attenta è coadiuvata dalla figura materna eccessivamente protettiva e presente; i genitori faticano a relazionarsi con il figlio, il quale spesso rifiuta qualsiasi tipo di aiuto. La terza è in relazione alla vita scolastica: il rifiuto della scuola è uno dei primi campanelli d’allarme, l’ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente negativo e molto spesso dietro l’isolamento può nascondersi una storia di bullismo. Infine, la motivazione di carattere sociale: gli hikikomori hanno una visione molto negativa della società e soffrono particolarmente le pressioni di realizzazione sociale dalle quali cercano in tutti i modi di fuggire; questi sentimenti negativi possono portare a un atteggiamento di rifiuto verso quelle che sono le fonti di tali aspettative sociali. Poiché queste fonti sono rappresentate dai genitori, dagli insegnanti, dai coetanei e, più in generale dalla società, il ragazzo tenderà spontaneamente ad allontanarsene. Da qui il rifiuto di parlare con i parenti, di andare a scuola, di mantenere relazioni di amicizia e di intraprendere un qualsiasi tipo di carriera sociale. Da qui i sentimenti di odio verso le sorgenti del proprio dolore e la scelta del ritiro, dell’isolamento.
Generalmente sono maschi, di età compresa fra i 16 ed i 35 anni (sebbene il numero di ragazze isolate potrebbe essere sottostimato dai sondaggi effettuati finora) su cui i genitori ripongono alte aspettative sia negli studi che nell’ingresso del mondo del lavoro. Quella degli Hikikomori sembra sempre meno una sindrome culturale esclusivamente giapponese, come si riteneva all’inizio; al contrario, si configura sempre più come un disagio adattivo sociale, che riguarda tutti i Paesi economicamente sviluppati. In Italia non ci sono ancora dati ufficiali, ma l’attenzione nei confronti del fenomeno sta aumentando e si ritiene più che verosimile una stima di almeno 100 mila casi anche nel Bel Paese. Alcuni vivono in questo stato per un periodo più o meno lungo, per molti altri invece il fenomeno si cronicizza, finendo per interessare anche la fascia di popolazione over 40 e causando un problema sociale non da poco: non essendo attivi non producono, un blocco psicologico li fa sentire inutili, inadatti e non amati. Prigionieri di sé stessi, intrappolati nella stanza in cui passano tutto il loro tempo, quella che inizialmente è la loro trappola diventa col tempo la loro stessa salvezza: lì nessuno può giudicarli o ferirli; pienamente consapevoli e coscienti del loro ritiro, più tempo trascorrono in isolamento, più in loro aumenta il timore di confrontarsi con il mondo esterno. La maggior parte degli Hikikomori oggi dipende in maniera quasi totale da Internet, che rappresenta il loro unico accesso al mondo esterno e l’unico modo di passare il tempo, creandosi una vita parallela in cui rifugiarsi: lì possono essere gli eroi che sanno di non poter essere nella realtà. La succitata dipendenza da internet viene spesso additata come una delle principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, ma non è così. Essa rappresenta una conseguenza dell’isolamento, non la sua causa; basti sapere che il fenomeno dell’isolamento degli Hikikomori era già enormemente diffuso in Giappone ben prima della nascita di internet. Da questo punto di vista l’utilizzo del web può essere interpretato come un fattore in qualche misura positivo, in quanto consente ai ragazzi di continuare a coltivare relazioni sociali che altrimenti non avrebbero.
In Italia e nel mondo, il problema dovrebbe essere preso in seria considerazione, poiché con l’avanzare della tecnologia e della scarsità del lavoro, il numero di Hikikomori aumenterà in maniera esponenziale, con il pericolo sempre maggiore di essere scambiato con patologie con cui nulla ha a che fare, generando grande confusione intorno a questo fenomeno e impedendo a coloro che si trovano in questa condizione di identificarsi come tali.
Martin Di Lucia
(da Fuori dalla Rete, Giugno 2020, anno XIV, n. 3)