C’era una volta la Dc e c’era in tutta Italia, ma l’Irpinia fu un caso a sé». Inizia così, come la più classica delle favole, Li chiamavano i magnifici 7, il libro del giornalista Rai Daniele Morgera che ripercorre, grazie ad aneddoti e testimonianze, l’avventura politica dei protagonisti di una stagione che ha portato la provincia di Avellino ad essere per lungo tempo laboratorio e centro decisionale dello Stivale.
«Il volume è il racconto di uomini e periferie che hanno saputo conquistare la scena pubblica del Paese, di una classe dirigente forse irripetibile – scrive l’autore nell’introduzione – che prese forma nelle valli immaginifiche e impervie dell’avellinese, per poi incanalarsi nei rivoli della storia. Da questo humus sociale, fatto di fatica e paesaggio, ebbe origine la Democrazia Cristiana di De Mita. Se Ciriaco era l’architrave, gli altri erano le colonne su cui poggiava il suo potere: Gerardo Bianco, Nicola Mancino, Biagio Agnes, Salverino De Vito, Antonio Aurigemma, Aristide Savignano, Giuseppe Gargani, Ortensio Zecchino». I magnifici, dunque, erano più di sette. Edito da La Bussola, con postfazione di Andrea Covotta, il libro è già stato presentato ad Ariano e dopo Pasqua sarà al centro di un pubblico confronto che si terrà ad Avellino.
Morgera, il suo è un lavoro destinato soprattutto ai giovani. Non a caso come protagonista c’è un’immaginaria ragazzina adolescente che, guidata dal nonno, scopre la “favola” dei magnifici sette.
«Il libro non è una somma di biografie. Io lo definisco il romanzo popolare, o di territorio, della nostra provincia. Oppure, meglio ancora, una favola politica, perché cerca di spiegare la Dc ai nipoti. Protagonista è una ragazzina di 14 anni, Alfonsina, che con il nonno, Genesio, fa questo viaggio alla scoperta dei magnifici sette. Un viaggio che passa per i comuni d’origine di tutti i magnifici e che quindi percorre l’Irpinia in lungo e largo. Alfonsina alla fine capisce che questo miracolo dei magnifici sette ha una radice comune che è quella della grande preparazione culturale che li ha portati a diventare classe dirigente. Una classe dirigente fondata sulla competenza, un miracolo politico sorretto dall’istruzione e dalla visione, dalla voglia di progresso di chi parte da una provincia residuale e la trasforma nel centro della scena pubblica. Le testimonianze raccolte sono tutte vere, mentre il viaggio è immaginario».
Dunque, quanti erano questi magnifici?
«Io sono di origini romane e dell’isola di Ischia. Sono diventato irpino per amore di mia moglie e da 15 anni vivo ad Ariano. Questa epopea, dunque, non l’ho vissuta in prima persona ma ho dovuto fare delle ricerche. La prima cosa che ho scoperto è che non c’era una statuizione precisa di chi fossero i magnifici sette. C’era chi inseriva un personaggio, chi un altro. Alla fine sono arrivato a un punto che credo si possa condividere. C’è stato un primo nucleo che comprendeva anche Aristide Savignano e Nacchettino Aurigemma, che però poi presero strade diverse per motivi differenti. Aurigemma, che è stato sindaco di Avellino, uscì dalla scena politica sostanzialmente nel ’75, pur rimanendo comunque nella scia intellettuale di tutto quel movimento che aveva contribuito a fondare, essendone il maître à penser, il grande ideologo, penna raffinatissima, si dedicò al giornalismo. Aristide Savignano, invece, dopo la rottura con De Mita, si impegno quasi esclusivamente nella carriera accademica, senza avere incarichi politici e pubblici. Questi due magnifici nei decenni successivi furono in qualche modo sostituiti da due figure importantissime, Gargani e Zecchino. Volendo c’è anche Clemente Mastella, che però essendo sannita non rientra nel libro, ma sicuramente appartiene a questo grande movimento che si sviluppa dagli anni ’60 agli anni ’80, raggiunge l’acme con la guida del partito e il governo De Mita, punto di arrivo di questa epopea. Dunque, alla fine i magnifici sette sono nove, a cui io aggiungo nel libro “il progenitore”, Fiorentino Sullo, senza il quale nulla ci sarebbe stato».
Ma come è stato possibile che una sperduta provincia del Mezzogiorno diventasse per anni il centro della politica italiana?
«E’ proprio questa la grandezza dei magnifici sette: quella di aver portato delle periferie quasi estreme, dove c’erano condizioni di vita anche di arretratezza, al centro della scena pubblica e politica. E ciò senza che ci fossero grandi poteri alle spalle, capitali o mezzi mediatici, ma attraverso l’ingegno, l’operosità e il grande progetto politico di questi intellettuali che si ritrovavano intorno a quella testata laboratorio che era “Cronache Irpine”, guidata con piglio manageriale, lo stesso che porterà in Rai, da Biagio Agnes. Agnes dettava i tempi, i ritmi di questa casa comune, dove i basisti dell’Irpinia, cioè i fondatori della corrente della sinistra di base, elaboravano il loro pensiero ed entravano con le loro idee in un dibattito che li vedeva protagonisti. Questo accadeva mentre la Dc era governata da Fiorentino Sullo, dominus assoluto».
Fiorentino Sullo lei lo definisce “il progenitore” dei magnifici sette?
«Nato a Paternopoli, vissuto poi a Castelvetere sul Calore, Sullo a 25 anni era già uno dei padri costituenti. Anche lui era un personaggio di una cultura incredibile. Si racconta che traducesse Tucidide dal greco all’impronta e che al Liceo Colletta era il migliore degli studenti. Sullo può essere considerato un vero e proprio statista: la scelta di far passare l’autostrada Napoli-Bari per Avellino e Benevento, ad esempio, è dovuta a lui; così come la nascita dell’Alto Calore e di tante altre infrastrutture e opere pubbliche».
Ma Sullo era anche una specie di despota, o no?
«Sullo era anche un accentratore, era il padre padrone della Democrazia Cristiana. Non a caso ad un certo punto le aspirazioni del gruppo di intellettuali legato a Ciriaco De Mita entrarono in rotta di collisione con quella che era la legge di Fiorentino».
Nel libro si racconta del memorabile scontro generazionale al congresso che si tenne ad Avellino nel ‘69. Cosa accadde?
«Nel 1969 il congresso al cinema Eliseo fu teatro di un redde rationem tra i magnifici sette, allora ancor in nuce, e Fiorentino Sullo. Il passaggio, storico, nel libro viene raccontato da Gargani, uno dei protagonisti. La sua testimonianza fa rivivere con trasporto quel congresso che divise l’Irpinia tra gli oppositori e i sostenitori dei due fronti: da un lato i giovani rampanti, alfieri del rinnovamento, incarnati da Ciriaco De Mita; dall’altro il grande accentratore Sullo, veneratissimo. Finì pari, 15 voti contro 15, la differenza alla fine la fece il voto della delegata femminile, Giuseppina Fierro, e quindi prevalse De Mita. Da allora presero il volo i magnifici sette, mentre Sullo conobbe progressivamente il suo declino. Bisogna dire che De Mita era comunque già sulla scena politica, aveva provato a diventare sindaco di Nusco nel ’57, senza successo. Aveva anche tentato la scalata al parlamento, ma gli mancarono i voti di Sullo, e ciò fu anche alla base del contrasto che esplose nel ’69».
Sì può dire che intorno a De Mita nacque una sorta di culto della personalità?
«De Mita è inevitabilmente una figura presente in tutto il libro. C’è una riflessione anche sul linguaggio, sul demitese, sulla sua pronuncia, sulla sua capacità retorica. Beppe Sangiorgi, segretario di De Mita durante il suo governo, racconta che in realtà ciò che da Gianpaolo Pansa veniva descritto come l’oggettivazione di un potere personale, maiestatico, da sommo sacerdote, con lunghe file di questuanti a chiedere favori, era invece una delle manifestazioni più alte della democrazia, perché Ciriaco ascoltava tutti, manteneva un collegamento diretto col territorio. La fila era lunga, ma lui ascoltava tutti per tutto il tempo necessario ad arrivare ad una decisione condivisa».
Quella stagione viene ancora oggi molto criticata, almeno da alcuni, per metodi spesso definiti clientelari. Si tratta di critiche strumentali o fondate?
«Resta certamente un punto sul quale riflettere ed esprimere un giudizio. Anche tra i magnifici sette le visioni erano diverse. Aristide Savignano, ad esempio, si staccò dal gruppo perché chiedeva che la selezione della classe dirigente prescindesse dalla logica amicale, dalla fedeltà al leader. Nel libro, a questo proposito, c’è una lettera esclusiva fornita da Gianni Festa in cui si può leggere come anche tra i sette ci fossero visioni differenti».
C’è da dire che la Dc irpina alla fine è uscita indenne da tutti gli scandali, a partire dal cosiddetto Irpiniagate fino ad arrivare alla stagione di Tangentopoli.
«C’è una storia emblematica che riguarda Salverino De Vito, il cui collaboratore principale, allora presidente della commissione per la ricostruzione, viene arrestato con l’intento di fargli confessare chissà quali misfatti. Il teorema era dimostrare, come titolò L’Unità, che De Mita si era arricchito col terremoto. In realtà poi il teorema fu smontato. Lo steso fratello di De Mita, Michele, fu arrestato, e Giuseppe De Mita, il figlio, dice che nel primo interrogatorio il giudice gli disse “mi faccia il nome di suo fratello e lei va subito a casa”. Alla fine i fatti daranno ragione alla Dc irpina e alla bontà del suo operato».
Impossibile ripercorrere le biografie di tutti i sette (che poi sette non erano), ma merita certamente un passaggio Nicola Mancino, Ministro dell’Interno, Presidente del Senato, Vicepresidente del Csm, ad un passo dal diventare Presidente della Repubblica. Nel libro si racconta anche del suo coinvolgimento nel processo sulla trattativa Stato-Mafia, dal quale è uscito completamente scagionato ma provato.
«La vicenda della trattativa Stato-Mafia ha segnato molto Mancino. La moglie nel libro dice “me lo hanno rovinato”, ma dalle accuse uscirà a testa alta perché non c’era alcuna connessione tra il suo operato e il processo sulla trattativa, cui pure per lungo tempo è stato associato come unico personaggio politico. Enzo Roselli, suo collaboratore principale, definisce tutta questa vicenda una fake news».
Chi sono gli eredi dei magnifici sette?
«Non ci sono eredi materiali diretti, l’eredità però sta nella consapevolezza che partendo dal territorio, la base dei basisti, e cercando di interpretarne i bisogni, quando un gruppo di giovani si mette insieme può creare delle cose importanti. L’eredità è la forza di creare qualcosa seminando».
Tornerà mai la Dc?
«La Dc non tonerà mai perché appartiene a un periodo storico. Oramai è una categoria. Il popolarismo, invece, che è il valore che ha riunito tutti quanti i democristiani, è ancora protagonista in Europa e nel mondo. Bisogna inserire questi valori all’interno di una fase politica nuova; quanto più la sua espressione sarà forte, tanto più ricorderà quella della Dc e potrà anche superarla».
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