Trasposizione in prosa del racconto esoterico in versi “L’artista innamorato” di Onorio Ruotolo rimpinguato di ampie e fantastiche integrazioni operate dal sottoscritto senza alterare minimamente il valore culturale della silloge del summenzionato autore
Tanti anni fa, nella seconda metà del secolo XIX, in un radioso mattino d’autunno, un ragazzo dall’animo sensibile, bighellonando sull’altura detta “La Serra”, sulla cui sommità svetta tuttora il maniero normanno-svevo dei Cavaniglia, scoprì in una scarpata di roccia, tra gli altri rifiuti, una grossa scatola di cartone.
“Quel buon cartone”, si disse, “servirà per costruire splendide casucce al mio presepio.”
Raccoltala, la scoperchiò avidamente. Dalla stessa, all’inizio, non uscirono che batuffoli di cartastraccia, pezzi di trine consunti, nastri stinti e, a sorpresa, una lettera legata a croce da un ruvido filo nero. Spezzato il filo, estrasse dalla busta gialla, consunta, un foglietto ripiegato, orlato di ricami perforati, un ciuffo di capelli biondi e una immagine fotografica di ragazza impressa su lastra di rame argentato.
“Chi può essere mai questa fanciulla sorridente, dal viso bellissimo? Si chiedeva, “E’ ella morta, o vive ancora?”
Il ragazzo, sensitivo e fantasioso, vagheggiava su quei “cimeli”, da cui non si staccava mai. Per le strade, a scuola e nei momenti di gioco con gli amici, fissava e baciava spesso quel viso stupendo. In cuor suo, una voce gli diceva che la ragazza fosse ancora viva, e avesse più o meno la sua stessa età.
Cominciarono, così, a nascere nella sua mente sentimenti mai provati prima: euforia, malinconia, estasi, gioia e tormento. Contestualmente, cresceva in lui il desiderio prepotente di rintracciare la giovane donna che il fato aveva messo sul suo cammino. Ma non aveva la forza economica, data la giovane età, di effettuare ricerche su larga scala. E poi, In quale direzione si sarebbe dovuto muovere? Non aveva nessun punto di riferimento. Chissà quando avrebbe potuto guardare quella ragazza nei suoi splenditi occhi?
Passarono gli anni, e non si dava mai per vinto. Sperava sempre di poter riconoscere quel viso angelico in ogni giovane donna che incontrava sulla sua strada. A sedici anni, Michele, questi era il suo nome, era già un pittore famoso acclamato in tutto il Regno di Napoli. Lui possedeva la magia di trasformare in sublime beltà ogni donna ritratta dal suo pennello. Non mancava di dipingere quel volto amato, così come lui lo intuiva nei cambiamenti subìti dallo stesso nel corso del tempo, mettendo in risalto anche quelle inquietudini malinconiche, romantiche, e i primi ingenui turbamenti di una sessualità nascente, inconsapevole, che preludono al rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità. E trasportava il riso sulle labbra di tanti volti femminili, che fissava nelle sue contesissime tele. Proiettava, inoltre, nei tanti occhi di donne e fanciulle, di spose e di amanti da lui ritratti dal vero, lo sguardo trasparente della “ragazza del mistero”, sbizzarrendosi con la sfera della fantasia, che riveniva dall’estro della sua arte divina.
Non bastò, però, la gloria, né tantomeno la ricchezza e le profferte d’amore di altre donne belle e blasonate, ad appagare i tormenti e le ansie che gli solcavano l’anima, riconducibili all’immagine a lui cara, ai talismani della sua ispirazione artistica e sentimentale, gelosamente custoditi in uno scrigno d’argento smaltato. Saputo che in città viveva un famoso veggente indiano dalle facoltà psicometriche, Michele volle consultarlo per avere notizie della fanciulla del castello. Era, questi, un personaggio di grande carisma: alto, ieratico, dalla folta barba bianca che gli si allungava sul saio e gli donava le sembianze di un profeta scolpito nel marmo. Raccolti dalla teca i “cimeli”, il veggente se li posò sulla fronte comprimendoli con le dita scarne. Restò fermo e muto per qualche istante e poi, con voce bassa, quasi rauca, disse:
“L’immagine e i capelli emanano vibrazioni vitali. La fanciulla è viva!“ .
E Michele: “Maestro, siete certo di quel che dite? Vi prego, datemi qualche notizia più specifica che possa condurmi sulle sue tracce.
E il santone: “Di certo, fratello, c’è una sola cosa: la Sacra Trimurtì. Tuttavia, perché tu possa convincerti della veridicità delle mie parole, sappi che conosco il tuo segreto. Non è forse vero che in un piccolo paese di montagna, nel quale svetta un castello medievale, un giorno hai raccolto da una scatola di cartone, abbandonata tra i rifiuti, le vibranti immagini che ho appena esaminato?”
Michele lo guardò stupito.
“Ebbene”, proseguì il veggente, “una volta partita da Napoli col bastimento della Compagnia di Navigazione Italo-Platense, dopo giorni e giorni di navigazione il battello affondò nell’infido oceano. Più di mille migranti perirono con i genitori della piccola. Soltanto lei si salvò poiché protetta dagli influssi astrali della madre morta. Fu lasciata dalla furia del mare su un isolotto selvatico di un continente latino, dove fu raccolta da un pescatore di squali. La vedo, ora, circonfusa di luce mentre dispensa baci e ringraziamenti ad una folla plaudente”.
Michele, da quel giorno, smise di dipingere. Raccolte le sue opere, si avviò per le strade del mondo per mostrare il suo genio, la sua arte sublima alitata dal suo estro creativo: Caracas, Buenos Aires, Montevideo. In ogni capitale delle Americhe le sue opere destavano meraviglia. Le gallerie e le pinacoteche specializzate se le disputavano a peso d’oro. Ma lui non vendeva, né tantomeno assumeva impegni per crearne altre. Si prodigò affinché le stesse, che riproducevano il modello-tipo dei suoi ritratti di donna, fossero pubblicate in giornali e riviste illustrate, con l’impegno di regalare il quadro più vistoso della mostra, un vero capolavoro, a colei che più somigliasse al modello (la sua donna del mistero) fissato in tutti i suoi dipinti. Qualcuno lo definì eccentrico, in cerca di pubblicità erotica. Qualcun altro, invece, capì il dramma dell’artista e dissipò ogni dubbio o sospetto. Tutti, però, rimanevano estasiati, rapiti da quell’arte sublime che ha la forza di far vivere il tempo come presenza silenziosa, che trascina con sé, nel proprio respiro, il mondo e le sue ineffabili immagini.
Il suo era un continuo tran tran, un moto perpetuo che, di città in città, lo portava al cospetto di donne belle, eleganti e ricche che aspiravano al vistoso premio. Sentiva che il suo problema stava per risolversi. La notte non dormiva, e nei sogni vedeva la “sua” donna tra le braccia di uomini sconosciuti, e non si dava pace. Si svegliava spesso madido di sudore; capiva, però, che le orribili visioni oniriche, e le conseguenti interpretazioni, facevano parte del suo essere complesso: erano soltanto sogni, lontani anni luce dalla realtà.
Era stanco, scoraggiato e deluso. Aveva deciso di ritornare in paese quando gli pervenne da Santiago una lettera profumata di una segnorita di nome Blanquita, famosa in Cile per le sue virtù canore. La lettera diceva più o meno così: “Da Montevideo, una cara amica mi ha inviato una foto di un vostro capolavoro che riproduce fedelmente le mie sembianze. Ciò mi esalta e mi onora. Quello, però, che mi stupisce è il non conoscere da quali immagini abbiate potuto clonare le mie, così nobilmente idealizzate dal vostro genio creativo, dato che esse, per mia precisa volontà, non sono mai state fissate su carta e tela da fotografi e pittori.”
Le navi a vapore che in quell’epoca partivano dal porto di Napoli per l’Argentina, erano di numero limitatissimo. La più importante era provvista di un’elica di ferro, di una macchina di trentaquattro cavalli-vapore e stazzava centosei tonnellate lorde. Il suo nome era “Speranza”, sostantivo che racchiudeva le prospettive e le eventualità dell’approdo felice. E di speranze, la famiglia Abiosi, ne aveva tante quando mise piede a bordo del bastimento per essere trasportata nell’America latina.
Dopo trentadue giorni di navigazione, che avevano cancellato dalla mente finanche il ricordo della partenza e il fumo nero che, copioso, pennellava il cielo sotto cui il Vesuvio già dava i primi segni d’impazienza, la nave finalmente raggiunse il mare argentino. Navigava lungo le coste di Santiago e Valparaiso quando il Pacifico s’incattivì. Ondate gigantesche travolsero il vecchio legno, che vacillò per qualche ora prima d’infrangersi sulla scogliera dell’isola di Juan Fernandez, dove affondò con il prezioso carico di vite umane. Tanto, Michele, riuscì a sapere sull’affondamento della M/n Speranza, una volta raggiunta la città di Buenos Aires.
La lettera di Blanquita lo aveva rincuorato alquanto. Organizzò immediatamente il viaggio a Santiago, dove avrebbe potuto incontrare la donna che gli aveva rapito il pensiero. Ma la via della felicità non era un’autostrada dritta e soleggiata, con comodi motel per il ristoro. Per percorrere pochi chilometri ci si impiegava più settimane. E la corriera che Michele aveva assoldato non era adusa ai trasporti interregionali, lunghi e stancanti. Il trasportatore, infatti, non aveva saputo programmare l’itinerario ideale, che tenesse conto di alcune cose d’importanza vitale per la buona riuscita della “impresa”, quali: viabilità, punti di sosta e di ricambio dei cavalli, sicurezza di non cadere preda della malavita locale. Viaggiavano a lume di naso, sotto il tiro stremato di cavalli esausti, che non riuscivano a compensare col riposo notturno le energie spese di giorno lungo i sentieri pietrosi e nelle mollicce pampas infestate di anofeli.
E così, Michele si ammalò. La malattia gli faceva bollire le carni, ma lui non demordeva. Quando la terzana si assopiva, spronava con impeto gli uomini della corriera affinché accelerassero il trotto degli animali. Ma poi comparivano le recidive del male e soggiaceva ai brividi scuotenti, alle vertigini e alla sudorazione diffusa, che gli inzuppava gli abiti e la biancheria facendolo delirare. Rivedeva, allora, nella confusione mentale, la casa avita, le montagne verdi, la pianura ubertosa e le acque gelide della sorgente Tronola che, dalle pieghe del monte, spruzzavano miriade di goccioline che si fondevano in copiosi rivoli schiumosi. Rivedeva, inoltre, le donne della sua vita: la madre, le zie, le sorelle e gli amici con cui dall’infanzia si era fatto uomo. Rivedeva, infine, le pennellate agili, nervose del maestro d’Accademia che, sul cavalletto situato in bilico su un dirupo, riproduceva su tela il volto di una ragazzina a lui cara. E avvertiva i morsi irritanti delle ortiche, quando cercava di allungare le mani sul corpo etereo di una giovane donna dagli occhi di cielo. Poi, il vuoto, il buio, l’assenza delle cose terrene.
Si svegliò, dopo qualche giorno, nel fienile di un casolare cileno. I compagni di viaggio non erano più con lui. Si erano dileguati affidandolo alle cure di una famiglia di contadini che, fortunatamente, sapeva ben curare le febbri malariche. Riabilitatosi, fu portato nei pressi di Santiago. Non gli fu difficile bussare alla porta dell’abitazione di Blanquita. Michele finalmente aveva trovato la donna, la sua anima gemella, il modello ispiratore dei suoi numerosi dipinti. Ella riacquistò immediatamente la memoria, che il naufragio aveva cancellato. L’idioma del suo paese natio aveva, forse, frizionato i circuiti del suo cervello provato. Si ricordò, allora, di chiamarsi Gemma. Ricordò finanche il castello diroccato, e tante altre cose che avevano vitalizzato la sua infanzia nel paese più bello d’Irpinia. Si riaccesero in lei, allora, le immagini più care: i genitori, i parenti, il giardino della casa paterna, il melo limoncello, e, con l’occhio risanato della mente, ricordava i racconti della nonna fatti di gnomi e di fate, che la introducevano nel mondo dei sogni, e il suo viso ceruleo, disperato nei momenti dell’addio mentre implorava la sua “carne” a non partire. Ma, si sa, il fiume non ascolta mai la sorgente: va per la sua strada. Rivisse i tragici momenti del naufragio, la pazzia delle onde che frantumarono il bastimento e catapultarono in mare uomini e cose; le mani pietose della madre, che l’aiutarono ad aggrapparsi alla salvezza, sempre tese nel momento del bisogno. E, infine, si illuminò nel sorriso amico e nelle premure dei pescatori del villaggio sconosciuto, che la riportarono in vita. Ritornò con Michele in Italia, tra la sua gente. Dimenticò, volutamente, di essere una cantante famosa per potersi dedicare, anima e corpo, al suo uomo, per il quale poter essere artista e modello per la vita, all’ombra di quel melo antico nel giardino di famiglia.
Antonio Cella
(da Fuori dalla Rete Natale 2022, anno XVI, n. 5)