Rossino, il soriano, era un bel gatto dal pelo rossastro, serpato da strisce dorsali con macchiettature varie che gli davano le sembianze del gatto selvatico. Quando Emilia lo raccolse tra i rami di “uscio” del giardino dei nonni materni, era un morbido batuffolo di pelo che si reggeva a malapena sulle zampine.
La piccola, nell’introdurre in seno alla famiglia il nuovo amico, incontrò il solo consenso della sorella Anna, più grande di lei di quattro anni che, pur avendone nove, viveva ancora nel mondo incontaminato delle favole, fatto di cose fantastiche aleggianti in un’atmosfera incantata, con fate, gnomi e ogni specie animale.
I nonni, che nutrivano per Emilia un affetto quasi morboso, anche perché portava lo stesso nome della nonna, non si pronunciarono in merito all’adozione. E lei ne approfittò immediatamente presentandolo, ufficialmente, all’intera famiglia come membro effettivo della stessa.
Personalmente, non ho mai avuto eccessive simpatie per gli animali. Gatti e cani, in particolare, mi hanno sempre infuso repellenza, forse ingiustificata, riconducibile alla sporcizia, al luridume, e alla trasmissione di germi patogeni da parte degli stessi. Quel giorno, però, feci un’eccezione: diedi, col silenzio, il mio assenso all’adozione.
A me piace il lupo. L’hirpus, quel magnifico esemplare di animale dal quale la mia terra nativa ha preso il nome. Lo rispetto a tal punto che, nell’esprimere messaggi augurali ad amici e parenti non dico mai “In bocca al lupo”, per non sentirmi rispondere “crepi il lupo!”. Preferisco, perciò, fare gli auguri alla marinara esprimendoli, con carenza di decenza, nella forma
che segue: “’nculu a la balena”, senza arrecare eccessivi danni al mammifero marino.
A cinque anni, Rossino, era diventato grosso e bello come un ghepardo. E quando Emilia tornava da Napoli per passare il fine settimana coi nonni, si spupazzavano a vicenda.
Dopo il terremoto del novembre ’80, Rossino si rese irreperibile. L’istinto animale di autodifesa lo aveva chiuso, evidentemente, chissà in quale nascondiglio.
Emilia, i cugini e gli amici del quartiere lo avevano cercato inutilmente in ogni angolo del giardino: negli anfratti di roccia che sporgevano a perpendicolo sull’ antica strada statale Appia n.7; tra le cataste di legna e in ogni buco dove le volpi non disdegnavano di rintanarsi. Niente! E quando i nonni partirono per Roma, per dormire sonni tranquilli nel comodo letto delle zie, perse ogni speranza di rivedere il suo piccolo amico.
Emilia sapeva bene che io, suo padre, avrei rimesso piede in quella vecchia casa pericolante solamente al rientro dei nonni.
I giorni che seguirono il sisma, furono di una mestizia inenarrabile. Ci eravamo allontanati dal paese per evitare il pericolo di restare sepolti sotto il crollo delle case, e per raggiungere altre famiglie che già si erano organizzate in un ampio spiazzo a sud-ovest dell’abitato, situato nei pressi della stazione ferroviaria. Fu una mossa felice, che ci consentì di rivedere amici e parenti con i quali passare, in compagnia, momenti di calorosa fratellanza che, nella disgrazia, accomuna ogni cosa. Ci eravamo accerchiati attorno ad un maestoso falò che riscaldava non solo le ossa e le membra indolenzite ma, cosa assai benevola, gratificava l’anima. Un falò poderoso, gigantesco, che come lampada votiva, stava sempre acceso.
Il falò, alimentato da traversine di legno non più utili alla strada ferrata, pregne di grasso dei bulloni e dalle assi di copertura di un vecchio capannone adibito a falegnameria, illuminava e riscaldava quei momenti di ansia, mettendo a nudo il pallore dei volti che, da scialli e coperte, si affacciavano sulla potente fiamma. Una scenografia spettrale. Tanto più, quando il mesto canto del cuculo scandiva il suo concerto nel silenzio tombale.
Le fiamme erano talmente alte da riverberare la loro luce fin sulle piante di noci e di sorbo, ancora cariche di frutto, come se proiettate da uno specchio concavo. E rendevano ancor più malinconico lo scenario quando focalizzavano, col loro alone, il circolo delle autovetture in sosta alle nostre spalle, che colavano dalle policromatiche lamiere rivoli di umidità, e cigolavano sotto il peso guardingo, ansioso, di vecchi e bambini ogniqualvolta cercassero di sgranchire i muscoli spenti, che da più ore avevano perduto il beneficio del letto.
Il guaire dei cani, poi, che dalla campagna buia si allungava fin sull’abitato di Montella, ci avvertiva, senza mai sbagliare, che la scossa di assestamento del sisma era in arrivo. E di lì a poco, infatti, venivamo sballottolati, come chicchi di grano nel setaccio, da quella devianza malefica della natura.
E la fiamma elastica, stilizzata, del falò, si sbriciolava, allora, in miriade di scintille di fuoco che smuovevano la cenere incandescente posandola, infine, sui nostri corpi, negli occhi già gonfi di dispiaceri, che più non sopportavano le visioni isteriche e le paure dei pavidi.
<Dio vaffan culo!>, imprecava Luigino rivolto al cielo, levando il suo gracile corpo sui braccioli della sedia a rotelle.
Subito dopo, però, soffocava il suo insulto recitando il rosario alla Vergine Maria:
“Salve Regina/Madre di misericordia/ Vita/ dolcezza/Speranza nostra/ salve.”
Gesù! Che momenti: rabbia, dolore e smarrimento affollavano le nostre anime.
Quando la radio, poi, ci bersagliava dall’etere elencando i morti di Sant’Angelo dei Lombardi, di Lioni, di Calabritto, di Senerchia e di Conza della Campania, capivamo di essere ancora tra i viventi e, col capo coperto di cenere, ci prostravamo all’Onnipotente.
Il 26 novembre, dopo aver raccolto il coraggio necessario per staccarci da quel gruppo di sopravvissuti che, imperiosamente, aveva allargato i margini della nostra famiglia, decidemmo di accettare l’invito di una nostra congiunta che viveva in Toscana.
Il tempo non prometteva niente di buono. Pioveva e la temperatura si era drasticamente abbassata.
La lunga estate, che aveva fagocitato l’autunno trasportandosi fin sulla soglia di dicembre, si era ormai spenta, esaurita. Quella fiamma non avrebbe più bruciato per noi, sarebbe rimasta soltanto un caro ricordo.
Contemplavo il colore dei monti e sentivo spingere il cuore dietro le costole. Sulle creste avanzavano, rapide, vaporose nubi che s’apprestavano a scaricare sottili bioccoli di ghiaccio sui residui di vita, graziati dalla pazzia della natura.
Dopo aver raccolto, in tutta fretta, poche cose dal comò di noce della nostra camera, ci affrettammo a parcheggiare l’auto in un posto sicuro, lontano dalla casa dei suoceri, sui cui lati si reggevano in precario equilibrio le vecchie case già butterate di antiche ferite. Avevamo programmato di raggiungere Napoli nella prima mattinata, per rifornirci di biancheria e vestiti nella nostra casa di Via Domenico Fontana.
Prima di partire, però, passammo per il cimitero, dove la natura indica all’uomo la sua parte d’eternità.
Le cappelle gentilizie non erano uscite indenni dalla violenza del sisma: dai loculi si affacciavano bare annerite dal tempo e teschi sdentati che sembrava volessero dirci “Anche noi ce l’abbiamo fatta”. Sì, ce l’avevamo fatta. Scene tristi che oggettivavano il voler vivere, e invitano l’uomo a prendere coscienza del dolore come verità ultima dell’universo.
Raccolto il viatico, dopo breve preghiera, ci avviammo risoluti verso la via statale che collega il paese con l’Autostrada del Sole.
All’altezza di Via Ronca, Emilia emise un acuto insolito, che per poco non mi fece sbandare l’auto.
<Che ti piglia, per la miseria! Perché allucchi come una forsennata?>
E lei:
<E’ lui, papà, è lui, è Rossino. Fermati>.
Era proprio lui: ci stava aspettando.
Tentai, invano, di convincere le ragazze a lasciare al suo destino l’animaletto. Ma quando passammo sotto l’arco del casello autostradale di Avellino-Est, Rossino aveva smesso di miagolare e, sprofondato nel pullover di cashemire verde di Emilia, si godeva il tepore dell’abitacolo.
La famiglia era al completo.
Partimmo da Napoli nella tarda mattinata, fermandoci qua e là nelle strade dove la gente solitamente è adusa a discettare sugli eventi più importanti. La città, come al solito, era più viva che mai, nonostante fosse stata ferita mortalmente in alcuni quartieri. Si notavano capannelli di gente preoccupata che commentava i morti di Sant’Eframo e quelli rinvenuti sotto le macerie dell’albergo crollato alla Duchesca. Si parlava anche delle evacuazioni imposte agli abitanti dei Quartieri Spagnoli dal Commissario straordinario Zamperletti.
<E’ nu gran signore>>, diceva uno di loro, <E cchistu sicuramente mette e’ccose a posto>.
E, ancora.
<Non tutti i mali vengono per nuocere. Avremo finalmente una casa nuova fiammante, tutti quanti>.
E:
<Le disgrazie non vengono mai da sole, non illudetevi!>, diceva un uomo di mezza età ad una trentina di ascoltatori assonnati. <Si prevede pure che il Vesuvio riprenderà le eruzioni e le fumarole di Pozzuoli scateneranno un tale bradisismo da sollevare il centro storico a livello di Monterusciello>.
Si camminava per le strade della città come formiche impazzite. Ambulanze, pompieri, 113 e Protezione Civile si facevano largo a suon di sirene, aggiungendo caos al caos.
Napoli, dal terremoto, era stata soltanto ferita. L’Irpinia, la Basilicata e gran parte del Salernitano avevano ricevuto, invece, il colpo mortale.
Una volta giunti a Campi Bisenzio, cittadina dove vive mia sorella Gerardina, Rossino, tanto per non cambiare, si dileguò nel buio della notte.
Grande fu la disperazione di Emilia ed Anna. A cena, nonostante l’irresistibile richiamo dei tortellini in brodo di gallina, non vollero toccare cibo.
<State tranquille, raazzine. Vedrete che prima o ‘ppoi il Rossino tornerà. Ovvìa!>
Enza, mia nipote, cercava di rincuorarle come meglio potesse. E a nulla servirono le crasse risate di Nello, pacioccone fratellino di Enza, per instaurare l’allegria, il buon umore. Il bimbo, nella segreta speranza di farle sorridere, mostrò loro finanche una foto che lo ritraeva abbracciato ad uno scimpanzé, che mia sorella teneva pomposamente in mostra sulla consolle del telefono. Ma, a piangere, alla fine fu lui quando gli feci notare che, dei due, era lui la scimmia. E fu il pianto di Nello a far ridere Anna.
Emilia, intanto, si era addormentata con la testa sulle mie ginocchia, tenendo stretto sul petto il pullover di cashemire verde, su cui aveva riposato Rossino durante il viaggio.
Campi è un paese piatto, disteso nella piana dell’Osmannoro, lungo i fianchi del fiume Bisenzio. Ai tempi di Malaparte giovane, aveva un’economia prevalentemente agricola, grazie alla notevole fertilità dei terreni. Poi, col tempo, i “maledetti toscani”, più noti come “ladri di galline”, hanno saputo trasformare l’economia in senso commerciale e industriale, seguendo la scia di Prato, che raggruppa le più grandi industrie tessili del Centro Italia.
Nell’immediato dopoguerra, Campi, è stato preso di mira dall’immigrazione trasversale grazie alla sua dinamica ricchezza e alle potenzialità manageriali che, negli anni sessanta, gli consentirono di allacciare collegamenti con l’industria tessile del Nord Europa e del Nord America. Si lavorava sodo. In ogni casa si lavorava la paglia, la lana e i prodotti dell’abbigliamento.
Molti Irpini, oggi, hanno un’attività imprenditoriale nelle zone di Signa, di San Piero a Ponti e Prato. Sono stati spinti colà non solo dalla necessità di lavorare ma anche dalla forza del destino e dall’inconscio richiamo etnico. I toscani di Campi e Prato, di Fiesole e Pistoia, di Pisa e Siena hanno una comune origine etnica cogli Irpini, dovuta allo stanziamento di una parte di popolazione ligure nel VII-V secolo a.C. Le stesse popolazioni che, più tardi, sottoposte al potere di Roma, furono costrette in massa ad occupare nel 180 a.C. la piana Taurasina dell’Irpinia Centrale, dove stanziarono definitivamente, dando ossigeno all’asfittica etnia locale.
In Toscana, oggi, la cultura, quella vera, che ti consente di superare i valichi infidi della conoscenza (intesa in senso lato), è piuttosto latitante. La gran parte dei toscani ha il senso pratico delle cose. Il loro pensiero è rivolto prevalentemente all’accumulo del dio denaro, al soddisfacimento del benessere fisico e non a quello della mente e della creatività: sono rimasti fermi all’epopea degli Alighieri e dei Galilei. Una esigua fetta di essi, poi, si è rifatta nel Rinascimento, i cui eredi formarono la parte elitaria della regione per molte decine di anni. Oggi, la loro cultura, è rivolta più alle sagre strapaesane che non ai convegni letterari e scientifici.
Erano passati, intanto, tre lunghi giorni, e di Rossino nessuna notizia. L’avevamo cercato in lungo e in largo nel circondario. Gerardina, aveva finanche fornito l’identikit al suo salumiere e alla parrucchiera, affinché lo mostrassero alla clientela.
Dicembre era sopraggiunto più uggioso del solito: freddo, umidità e improvvise colate di nebbia tinteggiavano l’operosa cittadina toscana di contaminante mestizia. Le notizie dei mass-media erano sempre più opprimenti, angoscianti: morti, feriti, dispersi, il freddo, la neve e il pericolo di epidemie. Che assillo! Eravamo a cinquecento chilometri dall’area del cratere, eppure sembrava che detti guai fossero appena fuori dell’uscio; che il terremoto ci avesse seguito in Toscana, e tutte le connesse problematiche fossero rimaste appiccicate alla nostra pelle senza che né le luci di Natale, che si stava avvicinando troppo velocemente senza darci il tempo di dare una verniciatina al morale, né i ricchi regali delle vetrine del centro potessero, in qualche modo, fondere la fredda stagnola che, con spirali luttuose, ci incartocciava anima e cuore.
Il nostro regalo di Natale era stato legato col nastro nero. Ce lo siamo trasportato nel tempo, fino a quando, rotti i legacci e tolti i puntelli alle case non abbiamo inneggiato alla vita.
Eravamo a cinquecento chilometri di distanza da una terra ormai distrutta. Eppure, ci sentivamo legati come non mai alle sue radici, di cui noi stessi ne eravamo il frutto.
<Forse, zio, il tuo gatto se l’è mangiato la volpe> diceva Nello parafrasando il padre, che non aveva dispiacere delle lacrime di Emilia.
<O, forse, è finito nel fiume e…>:
<Per favore, Nello, non rompere! Il gatto sta bene, è andato dalla tua scimmia allo zoo per stare con gli altri animali>.
<E perché non telefoni, allora?>.
Il suggerimento di Nello fece accendere nella mia testa la lampadina delle idee. Compilai di volata il numero telefonico di Radio Campi e proposi di lanciare un SOS, una richiesta di aiuto, di soccorso alla popolazione campigiana affinché ci aiutasse a cercare Rossino.
Emilia e Anna avevano la felicità che sprizzava dagli occhi quando la voce dello speaker annunciò <La scomparsa di un gatto terremotato di nome Rossino, appartenente a famiglia irpina, ospite della nostra città>.
L’otto dicembre, giorno dell’Immacolata, decidemmo di primo mattino di far ritorno a Napoli, sperando di ritrovare non solo la casa in muratura, ma la casa come terra dell’anima. Non potevamo restare di più con i congiunti, anche perché i doveri ci chiamavano: il lavoro, la scuola, il resto della famiglia. La sera precedente, avevo parcheggiato l’auto fuori dal giardino di casa perché fungesse da faro, da richiamo per Rossino.
Era, la mia, una speranza flebile, lontana anni luce, che insistentemente mi diceva di non spegnerla ancora.
Aveva ragione!
Fu Anna a dare l’allarme, facendo cadere sul pavimento della cucina la tazza di latte, che stava sorbendosi di malavoglia.
<E’ tornato! E’ tornato! Corri, Emilia, vieni a vedere Rossino!>
Era proprio lui, Rossino, che, disteso sulla estrema punta del cofano dell’auto, come l’elegante simbolo della Mercedes, aspettava la conferma della validità del suo potente olfatto.
E tante voci, velate di commozione, carezzarono nella bruma mattutina, come alito di caloroso respiro, l’amico delle mie figlie.
Era un po’ malconcio, dimagrito, ma, in sostanza, gli elementi vitali, quelli più profondi della sua natura e del suo fiero carattere, erano in lui più presenti che mai.
Antonio Cella
(da Fuori dalla Rete, Aprile 2018, anno XII, n. 2)