In Irpinia, come in ogni territorio a vocazione rurale che si rispetti, il pane è un elemento fondante. Il cardine di ogni tavola delle feste, ma anche la base di ogni pausa di lavoro nei campi. In provincia di Avellino esistono tante realtà che testimoniano il legame tra il pane e il territorio. Tante storie, anche molto diverse, ma tutte a loro modo interessanti. Se partiamo dalla disponibilità di materie prime, le zone a Nord ed a Est dell’Irpinia, che vanno dalla Valle Ufita fino all’Alta Irpinia, rappresentano quelle maggiormente vocate. Il motivo principale sta nell’abbondanza di grani, soprattutto di quelli antichi, recuperati o in fase di recupero (non a caso il Formicoso è definito il granaio d’Irpinia).
Basta visitare uno dei numerosi musei della tradizione contadina (in particolare quello di Aquilonia ne è una testimonianza forte) per rendersi conto della storicità di questa tradizione, con decine di strumenti ed utensili tipici. Ma anche foto e antiche testimonianze che documentano la radicazione di questa consuetudine. D’altronde il grano è un elemento focale per questi territori. Non solo una consolidata tradizione della pasta fatta in casa o virtuosi birrifici agricoli, ma anche importanti eventi (come quello di Flumeri) che a vario titolo raccontano del grano irpino e delle sue mille sfaccettature.
La grande facilità con cui oggi è possibile reperire il pane ha snaturato la genesi di questo alimento, un tempo prodotto per la sussistenza primaria, per corroborare i deschi poveri, per fare da sostegno ad ogni desinare. In Irpinia il concetto di “pane” è associato tradizionalmente al rituale della produzione casalinga. Fino agli anni ’50 del secolo scorso infatti le famiglie provvedevano a fare il pane in casa con regolarità. Preparavano l’impasto al mattino presto ed attendevano il momento per andarlo a cuocere. L’assenza di forni casalinghi costringeva le famiglie ad interfacciarsi con la figura del fornaio, oppure ad utilizzare i cosiddetti forni di comunità (anch’essi regolati da figure specifiche, come le fornarelle). Si tratta di grandi forni presenti in quasi tutte le comunità: tra i più famosi quello di Oscata, ma anche quello alimentato a paglia nella frazione Setaro di Vallesaccarda è un esempio molto emblematico. In alcuni paesi la presenza era addirittura su base rionale, come nel caso dei 7 forni che caratterizzavano Sant’Andrea di Conza.
In molte realtà, in particolare nel territorio di Calitri, le massaie erano solite impastare la propria pagnotta con un mix di grano tenero e semola, riponendole nelle madie, anche dette mbastapan. Quest’ultimo era un componente imprescindibile del mobilio, più importante del letto e del comò, nel quale l’impasto riposava al buio e con la temperatura adeguata. Quando le dimensioni delle case erano particolarmente ridotte, la madia lasciava il posto alla fazzatora (corrispondente alla sola parte superiore della madia). In questo modo, nei giorni in cui non occorreva, poteva essere riposta in piedi, occupando meno spazio. In casi disperati, dove anche la fazzatora era troppo ingombrante, si ricorreva alla grammola: una spianatoia utilizzata anche per la pasta in casa, o addirittura al solo tombagno, una versione ridotta della grammola.
L’impasto prevedeva l’utilizzo dell’acqua delle sorgenti irpine e del famoso criscito o crescente, il lievito madre ravvivato e custodito gelosamente, oppure preso in prestito dai vicini, per ottenere un pane genuino e soprattutto longevo. Il lievito madre garantiva infatti ad ogni pagnotta una conservazione lunghissima, quasi inimmaginabile oggi. Il pane era buono ancora dopo una settimana, a volte dieci giorni. Ed era una caratteristica fondamentale perché il forno di comunità non veniva acceso sempre, ma solo in date prestabilite. Perciò ogni famiglia doveva organizzarsi per cuocere un numero di pagnotte tali da arrivare fino alla successiva infornata programmata
Nel forno comune il posto per il pane di famiglia andava prenotato. Bisognava inoltre scegliere a quale infornata partecipare (a quella dell’alba, alla seconda in tarda mattinata o, se prevista, alla terza, nel pomeriggio). E poi bisognava anticipare quanto pane si sarebbe portato a cuocere. Nel giorno designato ogni famiglia veniva chiamata a portare le proprie pagnotte al forno, trasportandole spesso nelle ceste riposte sul capo. Era inoltre necessario marchiarle col simbolo di famiglia per renderle riconoscibili una volta cotte e distinguerle così da tutte le altre. Il risultato, nel caso del pane di Calitri sono forme molto grandi, che arrivano fino ai 6 kg., dalla forma detta a ruota di carretto. La crosta è molto croccante, sormontata da un taglio longitudinale, mentre la mollica, bianchissima, riporta un’alveolatura ben sviluppata e leggera.
Tornando ai forni, va detto che oltre ad essere strumenti molto utili, a guardarli oggi rappresentano dei veri e propri monumenti, importanti testimonianze storiografiche sul piano sociale e antropologico. Attorno al forno si faceva di tutto. Il tempo della cottura spesso veniva usato a pretesto per dirimere vecchie questioni, prendere importanti decisioni, discutere o programmare attività comunitarie. Intorno al forno si parlava, si cantavano canzoni popolari, ci si innamorava, insomma si rafforzava la comunità. A Bisaccia, rientrante nel circuito di città del pane, la tradizione rimane viva anche grazie a Giuseppe Pelullo, per tutti Peppino, contadino amante dei grani nostrani e nemico giurato dalla globalizzazione, delle mistificazioni alimentari e del profitto incondizionato. Peppino a Bisaccia ha recuperato uno dei forni di comunità, rendendolo un baluardo di inclusione sociale. Insieme al forno, da anni Pelullo si batte per far ritornare ai fasti di un tempo i numerosi grani antichi di cui la provincia di Avellino si fregia. Il Senatore Cappelli, la risciola, la romanella, ma soprattutto forse il grano irpino per antonomasia, la saragolla. Un seme dimenticato, che oggi Peppino valorizza, realizzando un pane di grande valore nutrizionale e prima ancora simbolo di grandi valori etici.
Ma il pane di qualità non è solo una prerogativa dell’Irpinia Nord-Orientale. Nel mandamento tradizione molto consolidata è quella del Pane di Baiano. Si tratta di una tipologia di pane apprezzato anche in tutto il nolano e che ha perciò ricevuto la certificazione di Prodotto agroalimentare tradizionale. Il grano utilizzato in questo caso è il frumento tipo 0, con il lievito naturale, l’acqua e il sale. La particolarità del Pane di Baiano sta nella forma allungata e nel colore tra il giallo e il grigio. La crosta è molto spessa e la mollica particolarmente elastica con alveoli irregolari, talvolta anche molto grossi.
C’è la segale invece la base del Pane di iurmano. Questa antica ricetta, tipica di un tratto dei Picentini, in particolare Bagnoli Irpino, Montella, Volturara Irpina e Chiusano di San Domenico, utilizza questo cereale in quanto particolarmente resistente al freddo tipico di questa zona. Il Pane di iurmano (il cui nome deriva dal termine dialettale con cui si chiamava la segale), si caratterizza per un colore molto scuro ed una conservabilità ancora più lunga.
Inutile rammentare come, al di là della tipologia, il pane sia un elemento unico, imprescindibile, oggetto di rituali sociali, ma anche di simbolismi religiosi e di una certa pregnanza all’interno delle nostre diete. In passato era sinonimo di fatica: fatica per impastarlo, per cuocerlo, per razionarlo. Ecco perché era un prodotto che non si buttava mai. C’era sempre un utilizzo alternativo. Da questa pratica sono nate per esempio ricette tradizionali irpine, con protagonista il pane raffermo (dall’uscieddu di Bagnoli, al pancotto, per finire con le imbottiture di scarole, seppie, ecc.).
Si pensi in particolare alle frecul’, briciole di pane raffermo, tostato e talvolta insaporito che, in particolare a Monteverde, sono retaggio della cucina povera. R’ frecul’ erano infatti incaricate di dare più verve ai piatti di pasta, sostituendosi di fatto all’odierna grattugiata di formaggio. Uscendo infine dalla tradizione classica, è possibile elencare alcune interessanti varianti che si stanno pian piano affermando. L’importanza conferita all’ucciolo di Castelvetere sul Calore, al muffletto di Caposele o allaschianata di Altavilla Irpina sono solo alcuni esempi di come dietro il persistere della tradizione ci sia la forte volontà di uomini e donne di non perdere il contatto con le proprie radici, perpetuando quelle tipicità che ci rendono orgogliosi di essere irpini.
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