In principio fu la LIM (Lavagna Interattiva Multimediale). Dieci anni fa l’allora Ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini volle un investimento di quasi cento milioni di euro per dotare le aule italiane di queste lavagne, che avrebbero permesso una lezione multimediale e avrebbero rottamato l’ardesia e i gessetti. Con i fondi europei esse arrivarono quasi dappertutto. Ma oggi, a dieci anni di distanza, le LIM sono presenti in meno di metà delle aule: nessun istituto ha i soldi per farne la manutenzione e, quando si guastano, vengono semplicemente accantonate.
Poi arrivò la moda dei libri digitali, che da qualche anno avrebbero dovuto sostituire (anche solo parzialmente) quelli cartacei. Una moda che è fallita quasi completamente già in partenza. Le case editrici stesse hanno ammesso che “… il venduto dei libri in formato digitale si conferma non significativo!”. Il libro cartaceo continua ad affascinare di più.
La legge 107 del 2015 (la famosa “Buona Scuola”) ha fatto del Piano Nazionale per la Scuola Digitale (PNSD) uno dei suoi pilastri, prevedendo risorse complessive per un miliardo di euro circa. Più di cento milioni, ad esempio, sono stati destinati a portare il wi-fi in ogni scuola. Ma, nei fatti, solo il 13% degli istituti scolastici è raggiunto dall’Internet veloce, con differenze che vanno dal 35% dell’Emilia Romagna al 2% di altre regioni, come l’Umbria. Anche il tablet per ogni alunno è rimasto una chimera nella quasi totalità dei casi e molti istituti tengono i mini-computer negli armadi.
Le scuole, comunque, tra registri elettronici, wi-fi, protocolli digitali e sicurezza informatica, sono alle prese con nuove spese cui non sanno e non possono fare fronte, facendo presagire un futuro tutt’altro che roseo per il PNSD.
Intanto crescono le perplessità verso l’organizzazione didattica interamente digitale che era nella testa del legislatore. Gli alunni, a casa e spesso anche a scuola, sono in mezzo a un vero e proprio bombardamento tecnologico (computer, tablet, smartphone…), quasi sempre senza nessuno che chiarisca loro che la tecnologia, almeno dal punto di vista didattico, è un mezzo per imparare, non il fine. Non solo: qualche psicologo comincia a dire chiaramente che, per i bambini e i ragazzi, avere più stimoli non significa automaticamente apprendere di più. E che, spesso, la tecnologia allontana dalla realtà. Si comincia a pensare che, probabilmente, portare i bambini in un bosco o in un museo sia più istruttivo di una lezione ad alto contenuto tecnologico. Non solo: nessun miglioramento sensibile si è avuto, nelle prove standardizzate della scuola italiana (le cosiddette prove INVALSI), dopo l’introduzione di LIM, tablet e Internet.
Intanto, fuori dell’Italia, la rivolta contro gli eccessi tecnologici nell’istruzione è molto più avanti che da noi. Quelli che abbiamo inseguito su questa strada cominciano a fare marcia indietro. Così, mentre il nostro ministro Fedeli parlava del cellulare in classe come di una “straordinaria opportunità”, in Francia si ribadiva che l’uso del telefonino in classe è vietato e, in Inghilterra, qualche istituto superiore ha intrapreso la strada del cosiddetto “digital detox”.
Probabilmente la scuola italiana sarà di nuovo costretta ad inseguire, questa volta sulla strada del ritorno dall’infatuazione digitale.