Io e mio padre

di Franco Lo Monaco
Io e mio padre

Dal vocabolario della lingua italiana – Treccani: “In generale, è l’attività, l’opera, e anche il risultato di educare, o educarsi, come sviluppo di facoltà e attitudini, come affinamento della sensibilità, come correzione del comportamento, come trasmissione e acquisizione di elementi culturali, estetici, morali. Più in particolare, è il processo di trasmissione culturale, diverso per ogni situazione storicamente e culturalmente determinata, mediante il quale, all’interno di determinate istituzioni sociali (famiglia, scuola ecc.), viene strutturata la personalità umana e integrata nella società.”

E’ un concetto che viene assimilato solo a partire da un certo periodo in poi della vita.  E’ una parola che ci perseguita durante l’infanzia e l’adolescenza, senza capirne l’esatto significato. E’ un imperativo al quale rispondiamo con profondo senso di responsabilità se a beneficiarne sono i nostri figli o le persone a cui teniamo in modo particolare. E’ un valore oggettivo che connota i comportamenti di una persona; buono o cattivo che sia, con esso facciamo i conti nel rapporto quotidiano con il prossimo. Il bambino è l’oggetto inconsapevole della “educazione”. All’età della ragione, quando avrà maturato capacità introspettive adeguate, potrà intenderne l’importanza; ma spetterà sempre agli altri il compito di stimarla e giudicarla. E finirà sotto esame anche chi, per lui, ha inciso di più <<nello sviluppo delle facoltà e delle attitudini>>, <<nella correzione del comportamento>>, <<nella trasmissione degli elementi culturali, estetici e morali>>.  Il tipo di orditura, che caratterizza l’assemblaggio dei tasselli del processo formativo di una personalità, talvolta non deriva da programmi educativi pianificati; anzi, spesso è il risultato della commistione di tracce indelebili, all’apparenza di poco conto, lasciate da esempi, episodi, atmosfere, ambienti, bocciature e/o gratificazioni inaspettate ricevute con la stessa forza, dai “no” quando si sono supplicati i “si” e viceversa. La composizione di questo grande puzzle, quanto più sofferta è stata, tanto più soddisfa se il risultato appaga, e convince che ne è valsa la pena. Così si è costruita nel tempo la mia educazione. Non voglio assegnarle alcun valore; la somma algebrica delle valenze positive e negative l’hanno fatta le vicende della mia vita, nelle quali, riflettendo, ho ritrovato quei segni che i miei genitori, spesso inconsapevolmente, hanno lasciato. Molti sono determinanti, altri li ho “disattivati” attraverso un’opera di cernita imposta dalla mia personalità consolidata. In particolare, l’opera educativa di mio padre “ha lavorato” attraverso la ripetitività di fatti e modi di agire, a volte giudicati troppo in fretta irragionevoli o sconclusionati. Oggi, in quelle apparenti balordaggini rinvengo i corposi suggerimenti che lui ha dato senza finalità calcolate.  Mi accorgo che proprio quelle balordaggini si sono tradotte in precisi insegnamenti, che hanno affinato la capacità di ricercare la morale giusta anche all’interno di una “favoletta”, in apparenza stupida e banale.  Molte forme di comportamento, di quelle per le quali spesso si passa per “fessi”, ma che non ti creano rimorsi e sensi di colpa, me le ha inculcate l’uomo di cui scrivo col suo solito stile di vita. E non importa se tanto lui, quanto io, ci siamo a volte sentiti indirizzare con ironica allusione una frase tratta da una commedia di Eduardo che dice: <<l’ommo onesto è a’ rruvina d’a casa>>.

Nel pratico, poi, gran parte di quanto oggi so fare l’ho appreso osservandolo sin da bambino mentre si adoperava in ogni sorta di compito manuale.  Mi affascinavano le sue soluzioni intelligenti, la facilità con la quale progettava e realizzava marchingegni dalle più svariate funzioni. Mi inorgoglivano i consensi che evocava negli altri. E nel mio piccolo cercavo di imitarlo, e mi accorgevo quanto era difficile fare quelle cose che nelle sue mani parevano di una facilità estrema. Mi ha insegnato a capire i meccanismi prima di farli funzionare in modo corretto, senza forzarli o danneggiarli E ciò ha determinato in me, bambino, qualche modo di fare paradossale. Infatti, quando mi comprava un giocattolo articolato o, comunque, semovente, dopo averlo usato io gli rivolgevo questa domanda: <<Babbo, lo rompo?>>.  Il mio non era il desiderio di sfasciarlo, ma la voglia di smontarlo per osservare quali congegni celassero quelle carcasse di latta colorate. Volevo rendermi conto perché quell’oggetto producesse quei particolari movimenti. Perciò, col tempo, nonostante la mia piccola età, imparai anche a riparare i miei giocattoli, sulla scorta dei suoi consigli tecnici.  Forse per uno spirito di rivalsa nei confronti della sua fanciullezza avara, ha soddisfatto con puntigliosità le esigenze correlate alla mia crescita.  Adeguatamente alle disponibilità economiche, e senza viziarmi, mi ha permesso di gioire comprandomi oggetti e giocattoli non comuni e non in linea coi tempi e con le realtà vissute dai miei coetanei. Ricordo bene che  prima li provava lui; ci giocava con fervore fanciullesco per pochi minuti e me li consegnava corredati di pareri idonei per usarli nel modo più sicuro ed appropriato.  Quando consegnava a domicilio un corposo blocco di ingrandimenti fotografici – faceva il fotografo ritoccatore di mestiere – e racimolava un buon compenso, era la regola che, prima del ritorno a casa, acquistasse qualche balocco per noi figli. E a questo aggiungeva la guantiera di paste dolci per tutti. Era un modo per festeggiare in famiglia il guadagno concretizzato, e tutti lo aspettavamo con una certa frenesia.

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Con me ha avuto un atteggiamento educativo tanto aperto quanto rigido. Mi incuteva timore quando mi faceva una raccomandazione, specialmente se m’accorgevo che  il tono usato  era deciso e serio. Se trasgredivo anche per me c’era il rischio di un “paliatone”, come quelli che lui ricevette da bambino dal nonno. E me ne ricordo diversi, dei quali, alcuni furono meritati, altri assolutamente ingiusti, secondo la regola classica della vita. Una volta, ad esempio, eravamo in procinto di pranzare. Lui era nervoso e mia madre mi dette l’incarico di apparecchiare la tavola.  Allorquando ci accomodammo per iniziare a mangiare, babbo,  prima mi fulminò con lo sguardo e, poi, senza che avessi il tempo di chiederne spiegazione, mi mollò un manrovescio in piena faccia che sorprese tanto me, che l’avevo ricevuto, quanto mia madre, alla quale ne sfuggiva la ragione. Non potevo capacitarmi. Cominciai a capire soltanto quando mi ingiunse con durezza di osservare il pane: la pagnotta l’avevo posta sul tavolo capovolta. E qui una tiritera interminabile sul perché il pane va trattato con devoto rispetto per ciò che rappresenta – il simbolo dell’Eucarestia e “il sudore della fronte” – e quanto sia di cattivo gusto e malaugurante presentarlo in quel modo sciatto. Lo schiaffone fu veramente forte e mi fece giungere sull’altra guancia “suo fratello” perché tentai timidamente di dimostrare che quella faccenda e la reazione scatenata erano state un po’ esagerate. Non ci fu verso, restò irremovibile ed io mi ritirai dalla contesa senza più fiatare.  Da allora, quando sono a tavola, mi viene spontaneo controllare  che il pezzo di pane stia nella posizione giusta, e, se capita che qualcuno lo capovolga, lo raddrizzo, perché ancora risento quella indimenticabile sgridata e gli effetti dei ceffoni presi. L’altra punizione che mi segnò, più che se fossi stato bastonato, la ricevetti quando un giorno mi chiese di andare a comprargli le sigarette e mi lamentai per il momento inopportuno per i miei giochi in corso in cui era giunta la richiesta. Io ero molto disponibile e servizievole con lui. Quando, però, ero preso dal gioco, qualunque distrazione imposta mi infastidiva, e manifestavo il disappunto producendo vibrati brontolii.

A quei tempi, le sigarette erano vendute a pacchetti da venti o sfuse. Babbo era solito comprarne non più di dieci, anche se l’acquisto si ripeteva con regolarità due volte al giorno.  Si illudeva di spendere e di fumare meno. Ed io mi chiedevo perché non ne comprasse un pacchetto intero da venti una sola volta al giorno, così per me si sarebbe dimezzato l’incomodo. Non ne potei più e gli rivolsi la stessa domanda con tanto di broncio e, forse, con un po’ di supponenza. Mi accorsi in ritardo di essere stato incauto. Prima ci fu una caustica ramanzina, poi la sentenza e, quindi, la pena. Sotto minaccia, mio padre mi dette i soldi per una sola sigaretta e mi mandò al tabacchino. Eseguii l’ordine, pensando con ingenuità che, per un suo bonario ripensamento, la cosa sarebbe finita là.  Quando gli consegnai la sigaretta con un garbo affettato, che voleva significare mille scuse, gli notai in volto una sfumata espressione di sadismo che, però, non riuscii ad interpretare per intero. Fu tutto chiaro un istante dopo. Cacciò dalla tasca un altra monetina e con fermezza mi ingiunse di andare a comprare un’altra sigaretta. Avvilito per il perfido disegno ordito a mio danno, obbedii e dovetti arrabattarmi con la tabaccaia – che mi conosceva molto bene – per giustificare quel tipo di acquisto all’apparenza insolito, se non addirittura folle. Tornai a casa e, ahimè, la storiella si ripetè. Te faccio abberè io, se a’ prossima vota te permiette ‘e fa storie quanno te cumanno pe’ nu servizio! – fu la frase che mi avvertì che la querelle si sarebbe ripetuta per ben otto volte ancora. E così fu. La tabaccaia, la quinta-sesta  volta che mi vide immusonito, con gli occhi rossi per il pianto e avvilito dalla vergogna chiedere una singola sigaretta, comprese che ero il destinatario di una punizione esemplare e, per solidarizzare con me, mi propose di prendere tutte le sigarette restanti per consegnarle, con un piccolo stratagemma, una ad una, come esigeva lui, senza però rifare il tragitto da casa alla tabaccheria. Non accettai, perché ero certo che, se babbo se ne fosse accorto, mi sarebbero toccati rimproveri supplementari.  Mio padre Michele nacque a Frattamaggiore in provincia di Napoli nel 1920. In tutta la sua vita è stato una persona che ha vissuto i suoi 93 anni all’insegna della semplicità, correttezza, contraddittorietà, generosità, altalenandosi tra la genialità e la stramberia della quale, però, spesso non se ne intese l’effettivo valore. Per lui ho scritto “Un diamante in mezzo ai sassi”, una raccolta di episodi che lo videro protagonista durante tutta la sua esistenza, in pagine che non sono né diario né cronaca, ma semplicemente il saggio di una vita, per me, affascinante da raccontare.

Franco Lo Monaco

(da Fuori dalla Rete novembre 2024, anno XVIII, n. 3)

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