La fisarmonica

di Antonio Cella

“Un giorno o l’altro”, diceva Nicola, “darò l’alt al celibato. sono arcistufo di girarmi e rigirarmi nel letto, la notte, senza cozzare in un corpo di femmina. Ho bisogno di calore, d’amore, di compagnia. Ho la solitudine nel cuore. Cento amici non bastano a saziare questo mio bisogno. Essi non mi danno amore. L’amicizia, quella vera, che piange quando io piango, che ride quando io rido e mi tende la mano quando la necessità lo richiede, non l’ho ancora trovata.”

Chi vive nell’era glaciale dello spirito, dove abbondano odio, immagini truculenti, disgreganti, non può capire cosa possa significare la parola famiglia.

La famiglia, la sua grande famiglia. Quella che gli aveva forgiato le membra e fasciato il pensiero di lamine trasparenti, fatte di puri sentimenti. Quella stessa famiglia, che ogni giorno gli faceva pagare col dolore la propria appartenenza. Quella famiglia, che alla luce della scoppiettante vampata del fuoco d’inverno si fondeva con le melodiche note della fisarmonica del piccolo Arnaldo, e si ritrovava, poi, nella cuna del sonno, tra braccia ovattate e silenti carezze, non era più tale.

Nicola amava molto la sua famiglia. Aveva appena un anno quando ridivenne figlio. La madre, colei che gli aveva donato il respiro, era morta durante il parto e, immediatamente, il padre gli regalò una turbo-madre che, nel giro di qualche lustro, gli incubò una pleiade di fratelli e sorelle da farlo sentire più solo che mai.

Una famiglia sproporzionata, impensabile ai tempi d’oggi. Tutte le accortezze, le attenzioni affettive, morbose ( abbondantemente vizianti), erano dedicate a lui. Le sorelle, gli facevano da mamma. E mamme erano per lui tutte le donne del Casale che, a turno, lo allattavano col proprio seno.

Quando, più tardi, iniziò lo scarciofamento di quella calorosa comunità, da cui aveva ricevuto linfa vitale e da cui si sentiva sempre più irresistibilmente attratto, non tanto per effetto del vincolo biologico, dalla voce del sangue quanto, piuttosto, da quella formidabile pleura che univa e ammantava anima e corpo di quel contesto umano, Nicola si sentì morire. Giuseppina, Anna e Lucia a Londra, ad accudir le altrui cose. Raffaela e Lorenzo in Lombardia, a farsi crocifiggere dall’odio razzista; Antonietta, di salute cagionevole, volò sulle ali del vento alla corte dell’Onnipotente. E si sentì morire più volte. Ogni foglia che volava via da quella quercia dalla chioma ombrosa, gli costava dolore. Piangeva. Piangeva di notte, quando il vento e il ticchettio della pioggia lo facevano sobbalzare sul letto.

Quando rapirono Concetta, era un freddo giorno di dicembre. Il ghiaccio aveva incollato la ghiaia al letto stradale. I ragazzi si divertivano a scivolare sul nastro azzurrognolo lungo una trentina di metri, che scindeva in longitudine Via Roma. Calzavano scarpe chiodate, di manifattura artigianale locale, con capocchie a farfalla inchiodate sulle punte e sui tacchi per impedire il consumo delle suole. I chiodi bluastri, al contatto col fondo stradale “metallizzato” dal ghiaccio producevano scintille di fuoco che filizzavano lungo lo scivolo e morivano soltanto quando affondavano, fumanti, nella rena disgelata della stazione d’arrivo. Quel nastro, segnato lungo l’arteria principale del paese, vitalizzava i giochi invernali: si aspettava la neve con ansia per cimentarsi nello sport dello scivolo. Sport illecito per la guardia civica che, col bastone di radica nera sempre appeso all’avambraccio sinistro, “abbrustoliva” loro le candide natiche. Illecito, perché, spesso, qualche imbranato “pipi”, sconfinando a mezza corsa dal serpente di ghiaccio, lasciava il proprio gruppo sanguigno sui marciapiedi della via: cosa, questa, regolarmente ascritta dalle madri dei maldestri sciatori alla incapacità di Peppe la guardia, di mantenere l’ordine civico. “Scavezzacolli! Criminali! Zoloni! Erano i termini con cui, anche nelle circostanze normali “Peppe la guardia” li redarguiva. Tipo simpaticissimo. A volte, quando era in vena di scherzare, con l’autorità che gli infondeva la divisa, spesso lo si vedeva richiedere agli accasati nel “quarturvascio” i documenti o quantomeno il permesso per poter accedere alla piazza grande del paese, retaggio dei giovani del “quarturcoppa”, quartiere alto del paese. E, con riferimento al menzionato nastro di ghiaccio, spesso, per convincere noi ragazzacci a traslocare altrove, s’inventava incidenti, del tipo:

“Ieri mattina, la figlia di Cietta Trillo, per poco non si è rotto l’osso del collo mentre, col barile di acqua in testa, ritornava dal Gavetone. Zoloni!”

Il Gavetone, è la fontana che per secoli ha dissetato il paese: Le giovani donne, con barili e conche di rame, vi si recavano due o più volte al giorno per l’approvvigionamento idrico. E non è da escludere, credo, che pur di passare per la Piazza, sempre gravida di sguardi accesi e di amorosi in calore, le stesse vi si recassero anche per l’acqua della vicina e per l’acqua della comare. Capitava, allora, che qualcuna di esse incappasse, come passeri nella tagliola, sul viscido nastro di ghiaccio e ruzzolasse col carico in testa, mettendo in mostra la bramate cosce.

Era l’ora del vespro, quando rapirono la sorella di Nicola.

I rintocchi della campana del monastero delle suore risuonavano secchi nell’aria gelida e, ad una certa altezza, pareva si trasformassero in palle di neve che sul selciato schiudevano suoni argentini.

Zia Cietta, la vinaia, si destreggiava sulla soglia della cantina col braciere, il cui carbone non voleva saperne d’infuocarsi. Gli soffiava dentro col tubo di ferro e, con la mano sinistra, si copriva gli occhi col lembo dello scialle nero per impedire alla cenere fuggiasca di penetrarvici. La brace viva, le serviva per alimentare lo scaldino, che avrebbe portato con sé in chiesa.

La messa vespertina avrebbe avuto inizio di lì a poco. A gruppi, donne e vecchi astemi, già accorrevano verso il convento, accartocciati in mantelli e scialli dalle abbaglianti cromaticità, da cui affioravano soltanto le nocche delle dita e i nasi arrossati dal freddo.

A Concetta, piaceva recarsi a messa in quell’ora. Disdettava di proposito la messa del mattino, anche nei giorni festivi, perché nel le andava giù il fatto che molte sue amiche vi si recassero per il solo scopo di farsi notare dai maschi i quali, pochi che fossero, erano lì per la medesima ragione, ovviamente, e non per attaccamento al Sacramento. Non che Concetta fosse una bigotta, una fanatica della religione o, come si usa dire, una timorata di Dio, no! Niente di tutto questo, Però, in tempi di novena, avvertiva il pressante bisogno di dedicarsi al Signore, anche se per pochi minuti. L’intimità della chiesetta del Convento e la maestosità della figura del Cuore di Gesù che dominava le fila di scranni dall’alto della nicchia incavata nella fiancata sinistra della chiesa, le conferivano raccoglimento nella preghiera e un senso di intimità da farle azzardare il “Tu” al Redentore.

Concetta si apprestava a raggiungere la Chiesa con la sorella Gerardina, più piccola di dieci anni, che teneva stretta al fianco per evitarle di scivolare sulle gradinate del Casale. La mano poggiata sull’omero sinistro, stringeva nel palmo i palpiti adolescenziali, gonfi di ansietà guardinghe, che nel crepuscolo pulsavano calore, compagnia, e adducevano fanciullezza ai suoi vent’anni ormai invecchiati nel dolore di ragazza orfana, figlia, sorella e madre di una infanzia numerosa, che le occupava i giorni e le notti di silenziose lacrime.

Sullo sfondo di Via Ronca, svettava lugubre il colosseo fatiscente dei Cavaniglia, che negli Strozzi rinnovarono il sangue amareggiato dalla tirannia della stirpe, che palpebrava tra il mareggiar dei tigli, il suo lamento antico, gravido di sospiri di vergogna e di umilianti stupri di candide Marie.

Concetta sfuggiva quel colle anche quando, costretta dalla macina del mulino adiacente al castello, si portava, sotto il peso del sacco di grano, per l’erta infame. Il terrore dello scheletro di pietra, che edificava all’infanzia fantasiose schermaglie tra i sambuchi attoniti, le fece allungare il passo.

All’altezza della scalinata del Casale, si vide sollevare da un turbine di ombre dure e poi trascinare, come frasca da fuoco, sul duro selciato da braccia nerborute che, senza pietà per il gracile corpo, la menarono giù per la carrozzabile della ferrovia. Non ebbe neppure la forza di gridare aiuto né, tantomeno, la possibilità di riconoscere in qualche volto una persona amica cui implorar pietà. Svenuta, fu trasportata, a spalle, nel pagliaio di un podere sulla sponda orientale del Calore dove, al dolore delle innumeri sanguinanti ferite, al terrore dell’uomo sconosciuto, dell’uomo sorpresa, si fuse la vergogna di vedersi “presa”, dal poi identificato rapitore. Perse l’onore sotto gli occhi asmatici di quei “grisi” che l’avevano gettata in pasto all’uomo in così malo modo; all’uomo al quale avrebbe dovuto obbedire per la vita, pur non nutrendo per lui alcun sentimento.

Gerardina rimase lì, in ginocchio, con lo sguardo inchiodato al selciato graffiato. Stringeva nelle mani di marmo la sciarpa della sorella rapita, che aveva tentato, invano, con le forze del suo giovane corpo, di trattenere a sé. Le trecce bionde e i nastri rossi, sciolti dalla furia del ratto, luccicavano sulla sciarpa di lutto che più non copriva le spalle della sua Concetta.

La lancia del centurione gli si era conficcata nel costato. Soltanto ora, lui, Luca Labbiento, padre di Concetta, capiva che nulla poteva contro il destino. Cristo, nella sua grandezza, aveva subito passivamente l’ignominia del Golgota, l’aveva vissuta da uomo comune, pur essendo figlio del Signore dell’Universo. Cosa poteva lui, figlio del Figlio?

Guardò il corpo sanguinante, che dalla croce nera supplicava perdono e, spavaldamente, gli parlò con animosità:

Se fossi Te, spezzerei i chiodi arrugginiti

e nelle carni altrui getterei il pianto

di ogni donna madre.

Ma, tu sei Tu,

soffri e porgi l’altra guancia.

Non ti accorgi che noi del mondo

più non ti cerchiamo?

Ti teniamo lì, in testa al letto

mentre godiamo, gozzovigliamo, crocifiggiamo.

Il tuo nome invochiamo

soltanto quando soffrono le carni.

E allora? Che aspetti?

Innalza un po’ più in alto il tuo calvario

E trita, lacera, spezza quei cuori

che annullano la pietra!

Ci troveremmo, forse,

più vicini.

Parole che, assunte nella valenza simbolico-semantica, rivelano la profonda disperazione dell’uomo-padre.

Luca restò in ginocchio nella fredda chiesetta. Cosa poteva lui, figlio del Figlio.

Lasciò cadere sulla balaustra l’arma della vendetta e si avviò, nel saio della misericordia, verso la sua casa che aspettava in preghiera.

 Antonio Cella

(da Fuori dalla Rete, Marzo 2020, anno XIV, n. 1)


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