I quarantenni, troppo vecchi per sentirsi giovani, troppo giovani per sentirsi vecchi, vivono uno smarrimento non solo anagrafico, ma anche storico. Testimoni di un mondo che non c’è più, quello delle ideologie e delle istituzioni, e di mondo presente, fluido e iperconnesso, sono perennemente in bilico tra la nostalgia del passato e il voler stare bene nel mondo nuovo. Il risultato è questo disorientamento generazionale che ci fa vivere male sia il passato che il presente.
Abbiamo creduto nelle ideologie del passato, ma tra post-fascismo e post-comunismo ha trionfato l’ideologia del mercato, che ha lasciato alle prime solo la possibilità di essere rievocate, previo acquisto, con poster, magliette, statuette. Abbiamo creduto nella collettività, ma l’individuo ha soppiantato ogni aggregazione, ogni confronto, ogni gruppo sociale, ogni istituzione. Abbiamo pure creduto nella politica, ma l’illusione che potesse risolvere i problemi esistenziali è stata ingenua e irragionevole, un reflusso sessantottino banale e deleterio. Intanto, in mezzo a tutte queste credenze, siamo stati spettatori disinteressanti dell’evaporazione della famiglia, della figura del padre, delle autorità e di Dio. Sì, a vederle da qui, si potrebbe tranquillamente dire che abbiamo creduto in un sacco di cazzate: primo, a quarant’anni tutto scende di tono e di importanza, secondo, il nuovo mondo, anche volendo, ha scalzato tutto ciò in cui, quasi inconsapevolmente, abbiamo creduto. Però sai, un tono riaffiora quasi sempre, proprio per darci un tono, quando parliamo di quel mondo ad un ragazzo che non l’ha visto e vissuto. Ma è un tono dimesso e retorico, la società fluida ha travolto tutto con il suo inarrestabile incedere, non ha tempo, non cerca alcun senso, soprattutto nel passato. Allora mi sembra sbagliato quel tempo, mi sembra sbagliato questo tempo, mi sento sbagliato io.
Trovare significati oggi è diventato oggettivamente un inutile esercizio esistenziale, li avevamo buttati anni fa un po’ a casaccio, un po’ per moda, un po’ per passatempo. Di quei contenitori vuoti oggi non rimane che un eco desolante e rimbombante, un eco che sorvola il vuoto di un presente disilluso, apatico, demotivante. Piccoli sensi effimeri, fugaci e sparsi, incontrano oggi solo il volere del piacere e del dover piacere, il trionfo della messa in scena della felicità che, non importa se è o non è felicità autentica per noi, purché sia presa per buona dagli altri. Ma è un tempo veloce, che non fa in tempo ad usare che deve già disfare, una corsa contro gli altri che genera ansia, agitazione, stress, quasi certo fallimento e malessere. Una società che propone tutto e non si sofferma su niente, non approfondisce nulla: abbiamo tutta la musica del mondo sul web, abbiamo tutto il cinema del mondo nelle nostre web-tv, mastichiamo velocemente tutto e sputiamo via subito, senza mai ingerire e trattenere nulla.
Con questi corpi vuoti e svuotati ce ne andiamo in giro condividendo in connessione perenne tutto questo nulla, l’autocelebrazione di fastose e pompose esistenze, tutte colme di una felicità filtrata e artificiale. Allora un quarantenne, a ben vedere, è una figura mista che si aggira come un ologramma tra l’odierno mondo veloce iper-connesso e un mondo passato analogico, più lento e sociale: il risultato è un imbarazzante essere umano che sta al mondo come un dromedario su un ghiacciaio, disagiatamente fuori luogo e incompiuto. Partono o restano, si sposano o non si sposano, hanno figli oppure no, sono quello che non avrebbero voluto essere e magari rinnegano anche se stessi, parlano o agiscono e credono di sbagliare ad ogni parola o ad ogni gesto o passo, per poi improvvisamente pensare di essere migliori degli altri, incompresi, velleitari e lunatici. Un quarantenne è l’emblema di uno smarrimento esistenziale, un quarantenne cerca risposte nelle risposte degli altri, le domande non le ricorda nemmeno più.
E’ al giro di boa, vede dietro di sé le onde ritirarsi, poi guarda avanti e scorge l’orizzonte imperscrutabile, ma non ne intuisce le distanze, guarda indietro, e poi di nuovo avanti, cerca goffamente di restare a galla e di non affogare, quando dovrebbe solo restarsene ben in equilibrio, concentrato sul proprio punto di passaggio, godere di ogni goccia che gli defluisce sotto e gli rimbalza addosso, godere di ogni grammo di vento che gli accarezza il volto, godere di ogni raggio di sole che illumina e scalda il suo corpo. Naufraga e annega, annaspa e risale. Alcuni intanto salpano dai porti, altri invece intravedono già la destinazione della terra promessa, nel mezzo un mucchio di gente, quella della mia generazione, che ha perso perché non ha nemmeno mai partecipato, ha solo fatto finta. Allora restiamo e resistiamo a galla nel breve naufragio esistenziale, ci affidiamo all’insensata casualità che muove tutte le cose, alle onde e al vento, e finiamo con l’avere un’unica sola certezza, quella di non avere certezze. In fondo maturare e poi invecchiare non sono altro che modi per continuare a non capirci un cazzo avendone però consapevolezza da più tempo e anni.
Da vecchi, vicino alla linea d’orizzonte, dovremo però ancora una volta fare finta, questa volta di averci capito almeno qualcosa, almeno un po’, a quel punto sarà più facile fare finta avendo fatto finta per tutta una vita, a quel punto i più giovani dovranno fare finta che per loro sia importante. Poi la ruota girerà, si inventeranno qualcosa, e la finzione riprenderà il suo naturale corso delle generazioni e vite.
Alejandro Antonio Di Giovanni
(da Fuori dalla Rete Marzo 2024, anno XVIII, n. 1)