La scomparsa dei paesi dalla mappa dell’Italia

Antonello Caporale (Il Fatto Quotidiano)

Un articolo pubblicato nel 2016, sempre più di attualità….


Un quinto dei comuni italiani è in cammino verso il nulla, un sesto della superficie nazionale viene colpita dall’abbandono e lasciata inselvatichire. Il quattro per cento della popolazione migrerà e due sono le destinazioni possibili: o il cimitero oppure i grandi centri urbani. Due anni fa, in un bel rapporto curato per Confcommercio da Legambiente su dati del Cresme, furono definite ghost town, città fantasma, le mille piazze sempre più desolate e afflitte, le case vuote, le mura sbrecciate, campanili cadenti. Comunità colpite al cuore che lentamente, e nella più assurda e colpevole distrazione collettiva, si avviano all’eutanasia.

Gli studiosi lo chiamano “disagio”, anzi l’Italia del disagio”. Poco alla volta chiudono i battenti i servizi elementari ed essenziali. Naturalmente prima gli ospedali, trasformati in lunghi e penosi comparti di geriatria, poi le scuole, con l’accorpamento delle distinte classi elementari e la sistemazione delle medie in luoghi distanti anche dieci chilometri dalle poche abitazioni in cui vivono ragazzi in età scolastica, poi l’ufficio postale.

L’anno scorso le Poste hanno iniziato a “razionalizzare”: un grande programma di ammodernamento che toglierà ai cittadini italiani che ancora si attardano a voler campare nei paesi che li hanno visti crescere, le essenziali relazioni civili ed economiche. Nei municipi il segretario comunale è già a “scavalco”, nel senso che si presenta al lavoro a giorni alterni, coniugando le funzioni in due o più uffici. Così anche il tecnico, in genere l’unico geometra o ingegnere di cui è dotata la pianta organica. Le chiese da tempo sono lasciate senza parroci perché la fede è grande ma i preti si fanno sempre più piccoli nel numero.

Questa è l’Italia che se ne va. Naturalmente va scomparendo di più, molto di più al Sud, massimamente nelle aree interne del Mezzogiorno con segni acuti nelle isole; di meno, molto di meno al Nord. In un rapporto fondamentale e accurato su Paesaggio e patrimonio culturale l’Istat ha raccolto una imponente mole di informazioni, le ha stese per iscritto (ma al governo le leggono?) e ha spiegato che non esiste un destino obbligato. La morte, purtroppo, sembra scelta con cura, decisa a tavolino da amministrazioni inefficienti, stabilita dall’ignavia o dalla mediocrità o soltanto dalla incompetenza (comunque colpevole) delle classi dirigenti.

I soldi sono importanti certo, e la massa di finanziamenti che si dirige in alcune porzioni d’Italia sono assai più cospicue rispetto ad altre. Ma i soldi non spiegano tutto. In Italia c’è una montagna che produce benessere, come le rocce altoatesine e quelle trentine, e per affinità le bellunesi e le lombarde, e una montagna che invece mangia la vita. La catena dell’Aspromonte è selvaggia, lussureggiante e spettacolare quanto il profilo alpino. Eppure è morente, prossima all’inselvatichimento, all’abbandono “per erosione”. E come l’Aspromonte l’appennino lucano, le Serre di San Bruno in Calabria, il cuore del Gennargentu in Sardegna, la vasta, bellissima piana nei dintorni di Enna.

Ma perfino nel Sud, scrive l’Istat nel rapporto di cui la geografa Alessandra Ferrara è una delle curatrici, c’è un altro Sud, sistemi locali persistenti e resistenti, a volte vincenti, attività produttive che danno prova di avere una capacità, un mercato, un futuro perché sono oggetto di un piano, hanno ottenuto attenzione e cura da parte di chi governa quei territori. Prima di stilare la lista delle croci, i nuovi cimiteri dentro i quali sarà purtroppo sepolta la metà del territorio italiano, riguardiamo la tabella preparata da Legambiente che offre la dimensione della progressione.

Nel 1996 il “disagio” riguardava 2.830 comuni, imponendo una migrazione prospettica alle nuove leve della popolazione residente, pari a cinque milioni. Nel 2001 i comuni divengono 3.292, nel 2006 fanno 3.556, nel 2011 sono già 3.959, quest’anno si arriverà alla cifra record di 4.395.

Sono quattordici milioni gli italiani che vivono in luoghi carenti nei servizi, con prospettive di occupazione più modeste, e una resistenza nelle case che li hanno visti nascere assai più fragile. Partiranno, e se non partiranno accetteranno, dove sarà possibile, un regime di vita e un trattamento sociale iniquo. Sennariolo, nel cuore della Sardegna, è lì lì per morire. Conta 183 abitanti e chiuderà i battenti tra non molto.

Poche settimane fa l’associazione Nino Carrus che tiene il conto dei morituri ha organizzato un convegno e illustrato ai politici regionali la situazione. Entro il 2050 166 paesi saranno vuoti, foglie morte in terra, nei prossimi quattro anni una prima trentina si accomietarà definitivamente. Nell’ultimo decennio 16 mila abitanti hanno fatto le valigie, nei prossimi tre anni, se le proiezioni non barano, altri quattromila saluteranno amici e parenti. L’Unione sarda ha elencato i cari futuri estinti: Bortigiadas, Padria, Giave, Montresta, Sorradile, Nugheddu San Nicolò, Baradili, Soddì, Ula Tirso, Martis, Armungia, il paese di Emilio Lussu.

L’Istat ha invece aggregato i territori per tematiche affini. In quelle abbandonate per erosione ha individuato una piccola capitale. Le comunità siciliane che gravitano intorno a Prizzi (Palermo) hanno perso negli ultimi tre anni il 13,3 per cento degli abitanti. Paesi dai nomi dolcissimi come Contessa Entellina, Campofiorito, Roccamena, Ficuzza vanno incontro alla sepoltura e neppure tanto lentamente. E in Calabria nell’area intorno a Chiaravalle Centrale, appena sopra l’istmo, la popolazione è diminuita del 15 per cento. Che ne sarà di Acquamammone, di Pirivoglia, di San Pietro? Nei pressi dell’ultimo cantiere della Salerno Reggio Calabria, a Mormanno, la flessione è stata del 12,4 per cento.

Tra dieci anni ritroveremo Castelluccio al suo posto? Salendo lo Stivale il baratro demografico si fa ancora più profondo e raggiunge un punto di non ritorno. Stigliano è la capitale di un territorio che dal 2011 al 2014 ha perso quasi il 22 per cento dei residenti. È una fuga amara, ingiusta. Morrà il paese di Carlo Levi, Aliano? Ce la farà Accettura? Nella Daunia pugliese il buco è pari al 16,9 per cento. Castelnuovo, Colletorto, Celenza, Casalnuovo Menterotaro. Nomi che scorrono, campanili che finiscono a terra, piazze conquistate dai cani randagi. Sono pezzi del nostro cuore, segni dell’identità e della civiltà contadina. Nelle campagne in cui si faceva il grano nasce l’ortica, gli ulivi rinsecchiscono, i fiumi conquistano gli orti, le strade statali, oramai senza più manutenzione, si trasformano piano piano in mulattiere. Ponti cadenti, guard rail arruginiti, terrapieni sbrecciati, frane dappertutto.

Il volto ingiusto di un’Italia che spinge sulla costa, si assiepa davanti al mare e lascia il suo cuore, il centro appenninico, vuoto, desolato, inutile. Come un barcone di immigrati, ci sistemiamo tutti ai bordi. Le città si allungano e continuiamo a costruire, mentre esiste un patrimonio abitativo disponibile e accessibile, oltre ogni ragionevole ipotesi, pochi passi più in là. Sono 18mila gli edifici costruiti nelle zone a vincolo, aree di inedificabilità assoluta, e in questi anni di recessione gli abusi, realizzati soltanto per sottrarsi alle tasse, sono raddoppiati. Siamo giunti al principio del fifty-fifty: per ogni nuova casa edificata con licenza, una realizzata all’impronta e senza titolo.

Nell’Italia che muore esiste però la speranza di un altro Paese che resiste e anzi avanza. Ci sono aree, distretti, territori anche al Sud in cui l’economia tiene. Nell’Irpinia, con Sant’Angelo dei Lombardi e Ariano Irpino, a Fonni e San Teodoro in Sardegna, Amantea e Belvedere Marittimo in Calabria, Cassino e Sora nel Lazio, Lauria in Basilicata.

La montagna o la collina dà benessere, e invece i soldi, solo i soldi, non bastano a cambiare vita. La via nera del petrolio in Lucania è un caso esemplare. Corleto Perticara è una delle capitali estrattive, dei centri propulsori di una economia texana che ha concesso in royalties ai comuni interessati un miliardo di euro. Eppure gli indicatori non danno speranza, la migrazione verso altri luoghi continua malgrado (o, forse, a causa?) del petrolio. E quanti soldi in fondi europei le aree interne (molte al Sud, ma alcune anche al centro nord) hanno ottenuto nel’ultimo quindicennio? Almeno cento miliardi di euro. Spesi come? Infine una nota estetica. Dove l’impianto urbanistico è meglio tenuto, si fa più attenzione, si è più partecipi e più indisponibili ad accettare il brutto. Il brutto si cura solo con il bello e l’Istat conferma.

ANTONELLO CAPORALE (Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2016)

Tratto dal sito: puntoponte.wordpress.com


Fonte: Rapporto sull’Italia del disagio abitativo 1996 – 2016

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