Sopravvivere al tumore con la prevenzione.
Raccontare la malattia, la propria malattia in particolare, significa infrangere un tabù, quello della presunta (solo presunta) invulnerabilità, assestare un colpo deciso a quella convinzione ammantata di sfida e che prende forma nella frase, pronunciata o pensata non importa, “a me non succederà”. In base a quali ragionamenti statistici non è dato sapere. Quando poi scopri che sei fra i 55.000 casi di tumore al seno che ogni anno vengono diagnosticati a donne sempre più giovani, devi necessariamente rivedere il tuo personale concetto di statistica e realizzare che sei un numero confuso tra altre migliaia di numeri, nulla di più.
Dietro le cifre, però, ci sono trame di storie in cui il cancro fa attenzione senza alcun riguardo, deviandone per sempre la traiettoria. Ricordo ancora la frase dell’anatomopatologo, chino sul vetrino con il campione di cellule, le mie cellule: “Che bella proliferazione cellulare, Signora. Deve operarsi quanto prima”. Era l’ultimo necessario riscontro prima dell’operazione, programmata a distanza di 3 settimane dalla prima diagnosi: lesione sospetta di 7mm al seno sinistro.
Dopo le mie vaghe conoscenze di statistica ho fatto appello a quelle, in verità molto scarse, di matematica. Sette millimetri, 0,7 centimetri. Anche nella conversione delle equivalenze la sostanza non era cambiata: una scheggia millimetrica di puro male stava mettendo radici silenti ma pericolose nel mio corpo, dal lato del cuore.
Poi un susseguirsi di altre indagini, sotto la guida del Dott. Iannace, per il quale non v’è aggettivo sufficientemente adeguato a definirne la straordinaria levatura di uomo e medico. A farmi compagnia in quel corridoio di ospedale, che ho imparato a riconoscere centimetro dopo centimetro, decine e decine di donne, di tutte le età, taciturne, loquaci, ma mai, e sottolineo mai, arrabbiate o anche solo scontrose, forse perché consapevoli di stare dalla stessa parte, quella offesa dalla malattia, ma pur sempre non sconfitte, non ancora.
Due di queste donne difficilmente dimenticherò: Maria, 46 anni, madre di otto figli e Anna, 29 anni, bella come la sua terra, Vietri sul mare, entrambe già sotto chemioterapia per ridurre il tumore prima dell’intervento di mastectomia. La semplicità della prima che, con una leggerezza inversamente proporzionale al peso di una maternità multipla, scrollava le spalle e sorrideva dicendo: “O dottore me n’adda manna’ a casa, ca tengo e criature ca m’aspettano”, mi sembra ancora adesso la risposta migliore a quell’ospite indesiderato che è il cancro. Il ricordo e il volto di Anna, la più giovane, mette in verità più in crisi la mia idea di giustizia, non dico divina ma di equa distribuzione di bene e male che toccano ad ognuno. “Non riconosco più il mio corpo, ho preso 30 chili, ma non m’importa: sono viva.”
Se adesso ripenso alla domanda che mi sono posta appena ho saputo del mio cancro (piccolo rispetto a quelli di Maria e Anna), “perché a me”, un’altra domanda, che poi è una risposta, da qualche parte mi arriva: “perché a loro e non a me”. Chi o cosa stabilisce il confine tra i sani e i malati, tra i fortunati e quelli che lo sono di meno? Ma poi è davvero così importante saperlo? Ci soddisferebbe la risposta?
Il punto non è generare commiserazione (parola odiosa per me e per chiunque lotti per tornare ad una normalità di cui solo dopo si apprezza il valore) o, peggio, autocommiserazione. La questione vera è la consapevolezza che abitiamo un corpo, una macchina meravigliosa, che per motivi tutti ancora da scoprire, s’inceppa: alcune cellule “impazziscono” e proliferano senza controllo.
Solo di due armi disponiamo per combattere il cancro: la prevenzione e il tempo. Grazie alla diagnosi precoce sono stati fatti progressi inimmaginabili fino a poco tempo fa, con effetti positivi sul tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi: prima scopriamo il tumore, più probabilità abbiamo di combatterlo efficacemente. In questa battaglia, il tempo è l’alleato più prezioso, ma anche il nostro nemico più temibile, quando lasciamo che scorra invano, o trascuriamo noi stessi, e rinviamo i controlli che potrebbero fare la differenza se eseguiti al momento giusto o contenere una sentenza inappellabile se fatti troppo tardi.
Una delle frasi che mi sono sentita ripetere spesso in questi mesi di cure e controlli è stata questa: “Signora, è stata brava, l’ha scovato prima che facesse danni più seri”. Non so se sono stata brava o semplicemente fortunata, sì perché qualche mese in anticipo o in ritardo nei controlli avrebbe potuto determinare esiti diversi.
Ma forse nemmeno questo è del tutto vero. Il punto è che non lo saprò mai. Il punto è che il cancro in un dato momento della vita fa la sua comparsa e nulla sarà o potrà essere più come prima e non solo in termini fisici, di percezione del corpo. È il concetto di tempo che cambia e deve cambiare: non è l’estensione che conta ma l’intensità. “Esserci nelle cose che accadono”, ha scritto qualcuno e condividere questo tempo con chi amiamo, donarne una parte agli altri, perché il tempo speso così non è mai perso. E in ultimo, ma non per ultimo, avere cura di noi.
Al mio ospite indesiderato, inatteso e, per ora, sconfitto, darò filo da torcere.
Maria Varricchio
(da Fuori dalla Rete, Novembre 2021, anno XV, n. 5)