Lo schiavo ideale è colui che non sa di esserlo

di Martin Di Lucia

Tra le strategie più in auge del potere Techno-capitalistico vi è quella di renderci tutti schiavi come nella nota spelonca di Platone, mito fondativo della filosofia occidentale, descritto nel settimo libro della “Repubblica”. 


Gli schiavi sono nella caverna senza sapere di esserlo

Lo schiavo ideale è quello che non sa di esserlo, quello che si batte in difesa delle proprie catene contro eventuali liberatori che volessero tirarlo fuori dalla spelonca. Il paragone della caverna di Platone può davvero, da questo punto di vista, aiutarci a comprendere l’odierna situazione globale; è come se tutti ci trovassimo all’interno di un’immensa caverna platonica globalizzata sul cui fondo vediamo scorrere le immagini della realtà mediatizzata, corrispondenti alle ombre che qualcuno da dietro proietta sul fondo della caverna a suo piacimento. Analogamente oggi abbiamo a che fare con una dimensione umbratile, caratterizzata da una realtà virtualizzata, che non ha alcun rapporto reale con la realtà autentica. Assistiamo a una sorta di monopolio dei mezzi dell’informazione e della produzione. Prova curiosa di come il sistema del libero mercato, come già diceva Lenin, tende a negare se stesso nella misura in cui parte da una condizione di libero mercato per poi giungere all’oligopolio o al monopolio. E’ innegabile l’esistenza di un monopolio permanente dei mezzi dell’informazione, oltre che della produzione, gestito da “signori apolidi del capitalismo” i quali fingono magari di confliggere tra loro, ma rimangono unitissimi nella gestione contro il nemico comune: le classi dominate. Lo schiavo ideale sotto questo profilo è quello che subisce il dominio e al tempo stesso non sa di essere dominato, di essere nella caverna, perché in effetti il paradosso della caverna sta nel fatto che si può sapere cosa sia una caverna solo se ne si è stati almeno una volta fuori. Se vi si è nati all’interno, come dice il mito platonico, non si saprà mai di esserne all’interno.  Dicevamo dunque che lo schiavo ideale è quello che non sapendo di esserlo si batte in difesa delle proprie catene, ma Platone trascura una seconda categoria di schiavo, quello che le catene desidera mantenerle. Perché? Perché ne trae una quieta servitù, vantaggiosa sotto certi profili, o perché semplicemente preferisce una rassicurante falsità piuttosto che una pericolosa verità. Il grande autore che ha smascherato questo punto alle soglie della modernità è stato Étienne de La Boétie con il Discorso della servitù volontaria, contraddicendo in parte Platone. Non è vero che lo schiavo subisce passivamente il potere che qualcuno dall’alto esercita. No, il rapporto di potere prende la forma di un reticolo molto più articolato in cui chi lo subisce è parte attiva del dominio che subisce. Egli vuole servire in qualche misura, vuole essere servo. Se egli cessasse di servire, se cessasse di portare le catene, allora sarebbe automaticamente libero.  Chi ha la formazione, chi ha la cultura, è colui che ha compreso, uscendo dalla caverna, che la condizione in cui stava prima era quella di Schiavo e non di libero, e quindi ridiscende nella caverna per liberare anche gli altri. Questo è un punto fondamentale del mito platonico che forse oggi, nella cultura del narcisismo individualistico in cui ognuno pensa unicamente a sé stesso, può sfuggire. Nel mondo social ognuno di noi è praticamente come nella caverna di Platone, di fronte a un’immagine digitalizzata, senza dialogo con gli altri. Nel mito non abbiamo notizie del fatto che l’incatenato dialoghi con gli altri, egli è solo di fronte all’immagine che gli sta davanti. Così il “social” ci illude di dialogare con terzi. In queste Reti Sociali noi non abbiamo un’identità ma un profilo, che è ben altra cosa; abbiamo un rapporto con l’immagine di noi che troviamo proiettata sulla rete sociale, sullo schermo del terminale. Proprio come nel mito platonico gli incatenati non hanno un rapporto con sé stessi perché vedono unicamente l’ombra di sé riflessa sulla parete; è la società digitalizzata integrale. Ecco perché lo studio dei classici è importante per capire che ne si esce soltanto con la cultura, soltanto se comprendiamo queste cose, con l’esempio della caverna e i social di oggi.

“Cosa fanno i cavernicoli imprigionati là sotto?” dice Platone: “passano il loro tempo a vedere le ombre sul fondo della Grotta e provano ad indovinare la loro successione”. Esattamente quello che avviene oggi, dove masse di ottenebrati dalle reti sociali e dal rimbombante crepitio di voci e di immagini che si succedono rapidamente sullo schermo del villaggio globale, non intrattengono più alcuna alcuna relazione con il mondo reale. Gli schiavi nella caverna non hanno un rapporto con ciò che sta dietro di loro, ma solo con ciò che gli sta davanti, cioè le immagini che proiettate grazie al fuoco si riflettono sul fondo. Sono seduti e incatenati l’uno accanto all’altro, ma hanno un rapporto solo con lo schermo che gli sta di fronte. Ciascuno di noi intrattiene rapporti digitali con individui dall’altra parte del mondo che mai potrà vedere realmente, e così facendo ne sottraiamo a quelle che stanno accanto a noi realmente. Questo è il paradosso della caverna globalizzata platonica.

Poi cosa accade? Accade che uno di questi cavernicoli riesce a liberarsi e finisce nella “realtà superiore”; esce dalla caverna; compie l’Anabasi, si accorge che il mondo in cui stava e che credeva essere l’unico nonché il più vero, è non soltanto falso e umbratile, ma è anche un mondo di prigionia in cui stava in catene. Una volta giunto lassù potrebbe godere di questa nuova beata condizione in solitudine, invece è mosso a compassione verso gli antichi compagni di schiavitù e ridiscende per liberarli per portar loro luce e liberazione. Ma cosa avviene a questo punto? Avviene la condizione tipica di chi oggi provi a liberare gli incatenati, avviene che il Liberatore anziché essere salutato dai beneficiari di questa Liberazione, viene dapprima schernito e deriso spietatamente, poiché una volta tornato nella caverna non riesce più a vedere nel buio, Egli ha ora gli occhi pieni di tenebra, dice Platone, dopo aver visto una realtà più vera. E nella misura in cui non si arresta ma seguita a voler liberare gli altri, viene messo morte. Un’immagine splendida di questa volontà degli uomini di voler servire, o perché non sanno di essere servi o perché pur sapendolo vogliono mantenere una servitù comoda rispetto a una pericolosa libertà.  Oggi ci sono molti più strumenti tecnologici per evitare che qualcuno possa uscirne e per far uscire le persone la parola d’ordine è cultura, Paideia, imparando, leggendo, ascoltando, si può cercare di uscire fuori dalla caverna. Cultura ed Educazione. Paideia vuol dire Entrambe le cose. Educare dal latino educere significa proprio tirare fuori.

Martin Di Lucia

(da Fuori dalla Rete, Settembre 2019, anno XIII, n. 4)

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