“Nel 2023” è il titolo di una canzone di Caterina Caselli e Dalida, uscita nel 1970. Era il rifacimento di un disco americano di qualche anno prima.
Nel 1970 io ero un ragazzino, ma quella canzone mi piaceva perché parlava del ventunesimo secolo e quindi, nella logica ottimista di quegli anni (che vedeva il futuro come portatore di progresso umano e civile), di un’epoca più giusta, senza guerre, senza ingiustizie, senza fame.
Oggi il 2023 è alle porte. Ma la fame, le ingiustizie e soprattutto le guerre sono ancora tutte qui. Credo, anzi, che il mondo attuale, da ogni punto di vista, sia complessivamente più brutto che nel 1970, non foss’altro perché il futuro di oggi è più fosco di quello che vedevamo in quegli anni.
Gli anni 2000 ci hanno portato pandemie e guerre, con le quali pensavamo di aver chiuso definitivamente i conti. E, ora che ne abbiamo scoperto la faccia più violenta, Putin assomiglia in maniera impressionante ad un imbianchino e muratore austriaco che, tra gli anni “30 e “40 del secolo scorso, provocò decine di milioni di morti. Egli, lungi dall’essere il grande statista glorificato fino a qualche settimana fa da Meloni, Berlusconi e Salvini (a proposito, in Polonia il Capitone ha fatto l’ennesima figura di m…), è la plastica rappresentazione della marcia indietro che il mondo ha fatto negli ultimi decenni.
Dobbiamo però riconoscere che il dittatore russo è riuscito in un miracolo: i suoi fans più sfegatati, infatti, sono quelli che, un secolo fa, avrebbero fatto il tifo per Hitler, ma anche quelli che rimpiangono l’Unione Sovietica.
Luciano Arciuolo