La ragione ingessa con le sue regole gli esseri umani ma, per fortuna, il cuore assai spesso le infrange, ridando all’esistenza la sua naturalezza e la sua libertà. L’esistenza che corre lungo binari prestabiliti all’improvviso deraglia e insegue traguardi impensati. A vent’anni, nel passato, una donna si sposava e si sceglieva un marito secondo i suoi gusti e i suoi progetti di vita, ma nel rispetto delle differenze sociali. Questa strettoia faceva sì che ognuno aguzzava l’ingegno per non perdere tempo e vivere giorno per giorno; così pure le monache, quando avevano a tiro qualche menestrello incerto e affamato: prima si davano da fare per metterlo in carne e poi lo spolpavano come lupe affamate. Non come oggi che le poverette per far carriera divorano libri ed enciclopedie come forsennate e poi, quando si guardano intorno e reclamano quelle gioie cui hanno per natura diritto, vengono da tutti snobbate e si vedono costrette a bussare disperate alla villa di un vecchio pavone spennacchiato che ha abbracciato questa croce e se la trascina eroicamente giorno e notte, fra l’incomprensione generale e sputacchiato da tutti.
Ninetta era figlia di una lavandaia, da tutti ricercata e stimata perché svolgeva il suo lavoro con grande serietà e impegno. Non rovistava nei panni in cerca di scoprire segreti, li sciacquava con impegno e, solo quando erano bene asciutti e lindi, li stirava e li riportava a casa delle signore le quali, non per mancanza di fiducia - per carità! -, li controllavano uno per uno attentamente e li riponevano nei cassetti complimentandosi per l’accuratezza con cui il lavoro era stato eseguito. “Guarda qua – dicevano le signore ai mariti – mai una macchia, mai uno strappo. Quella donna dovrebbe chiamarsi mani di fata!” Ma, malgrado le mani di fata, il lavoro rendeva poco, perché i ricchi sanno il valore del denaro e, quando si tratta di darlo agli altri, hanno gran cuore ma mani serrate, generosi nei complimenti ma tirchi nel mollare quattrini. Ce n’erano di quelli che davano gli avanzi del giorno prima e qualche indumento logoro, che per i loro figli era indecente, ma messo addosso a Ninetta l’avrebbe fatta somigliare ad una regina. La donna, per lo più, ringraziava e fingeva di accettarli, ma poi, appena lontana, dava da mangiare a qualche cane affamato e i panni li buttava nel fiume dicendo alla figlia che piagnucolava che le erano scappati di mano.
Scorreva non lontano dal paese un fiume sulle cui rive erano grossi e bianchi massi. Su quelli la donna, con una costanza che le poteva venire solo dalla disperazione, batteva e strizzava i panni calandoli furiosamente di tanto in tanto nell’acqua. Poi li spandeva sui rovi per farli asciugare. Le mani diventavano rosse per il freddo e ogni tanto, quando non ne poteva più, le ritirava e le asciugava vicino alla veste e, a volte, se le metteva sotto le ascelle alla ricerca di un po’ di calore. Solo a sera, quando il sole stava per tramontare, lei e Ninetta raccoglievano tutti i panni in un unico lenzuolo, li mettevano su un carretto tirato da un asino malandato e prendevano la via del ritorno. Certe volte, d’inverno, le ruote affondavano nella melma e la donna puntava i piedi e tirava le briglie per aiutare l’animale che arrancava. A casa poi, la sera, a lume di candela si stirava e si usava ago e filo per rimarginare qualche piccolo strappo. Il tutto infine veniva sistemato in una grossa cesta da consegnare alla famiglia, per passare poi a bussare a un’altra casa e chiedere se avevano roba da farsi lavare.
In primavera e in estate era una vera festa, tante erano le donne che lavavano i panni al fiume: lavavano e cantavano e poi stendevano i panni al sole sui rovi per farli asciugare e parlavano e gesticolavano e si chiamavano con quelle dell’argine opposto e chiedevano delle loro famiglie e dei figli con rumorose risate. Lavava sempre alla solita pietra la madre di Ninetta e, quando la coinvolgevano, faceva un cenno col capo e continuava il suo lavoro. Quella pietra ormai era diventata bianca, lucida e levigata come i marmi che erano sugli altari della chiesa o quelli delle tombe dei cimiteri dove la gente si inginocchia e prega.
La bimba cresceva sana e robusta, piena di curiosità e attenta ai primi piccoli particolari della realtà. Perdeva ore ed ore lungo gli argini a raccogliere pietruzze levigate e poi le separava per il colore, la forma e la grandezza. Solo un lieve accadimento la disorientò non poco. Andando al fiume, il carretto sobbalzò e da esso cadde un sacco aperto e la biancheria, da quella intima ai pantaloni e alle camicie, si sparse tutto attorno. Era coperta da un sudiciume che l’aveva cambiata di colore. La bimba, ubbidendo al suo istinto, accorse per aiutare la madre a raccoglierla. Puzzava! Odorava di quel fetore che trasmettono i cadaveri! La madre si accorse dei suoi pensieri e intervenne: “Non ci badare, non sono i panni che puzzano, sono quelli che li indossano. Hanno il sangue infetto e sporco come le loro coscienze.”
Zampettando verso il fiume prevalsero i profumi della natura, il colore dei fiori, le voci degli animali che si intravedevano nelle siepi e sugli alberi. Imparava ormai anche a rendersi utile e ad aiutare la madre che le diceva, quando la vedeva sporgersi troppo o mettere i piedi nell’acqua: “Attenta che ti cade la paperetta e la corrente la porta via”. Ma allora, si chiedeva Ninetta, tutte le papere che nuotavano in lontananza erano tutte scappate dalle rispettive signore? Ma certo! Sicuramente era così! E si divertiva a immaginare a chi era scappata la papera più grossa, a chi quella più veloce, a chi quella che nuotava maestosa, a chi quella più appartata e silenziosa, a chi quella che pareva sciancata, a chi quella un po’ sporca. Quella sicuramente doveva appartenere alla moglie del notaio, quella balena impellicciata che sudava anche quando stava seduta, che non si lavava mai e si illudeva di coprire il fetore che emanava consumando litri di profumo ogni giorno. Era tanto sozza che i suoi panni restavano dritti come sostenuti da stampelle invisibili e con tutte le sue forme, col fetore delle sue ascelle e le rotondità dei suoi glutei così come quelle dei seni che sembravano due bisacce. “Ma quelle hanno le piume!” disse rivolta alla madre. “Anche la tua le avrà quando sarà giunto il tempo di volare. Perciò ti dico di stare attenta e non avvicinarti all’acqua: senza le piume non può volare e rischierebbe di affogare!”
Da allora tutte le sere, forse condizionata dalla vista di tutte quelle papere che si muovevano a loro agio nell’acqua, mentre la madre raccoglieva paziente la biancheria, lei allungava con attenzione un piede e poi l’altro nel fiume, sollevava lentamente la veste, divaricava le gambe agili e magre e, guardando nello specchio d’acqua, si assicurava che la paperetta fosse al suo posto.
Si può dire che ormai aveva messo piume da tutte le parti quando la lavandaia morì e la giovane ereditò non solo il mestiere, ma anche l’asino e il carretto per il trasporto della biancheria da lavare. Quel giorno di luglio faceva un gran caldo. Si respirava lentamente quando lei vide un bel giovane pieno di vita tuffarsi nell’acqua e giocare con le papere, in particolare con quelle che lei aveva attribuito in passato alla contessa e alla figlia. Si accostò allo specchio d’acqua e sollevò la sottana per vedere se la sua era sempre al suo posto. “Che fai?” le disse guardandola negli occhi che gli piacquero tanto. E lei raccontò della sua angoscia e del suo costante timore. “La si potrebbe inchiodare” suggerì il giovane maliziosamente, e si misero all’opera senza pensarci più di tanto. Soltanto quando il creapopolo si abbatté sfinito smisero il lavoro, prendendo in considerazione i vantaggi e il reciproco piacere. Si convenne all’unanimità che almeno ogni quarto di luna i due si sarebbero visti per piantarvi altri chiodi e così avvenne sempre fino a quando Ninetta, ormai ventenne, non conobbe Sacco di paglia che si mise attorno alla giovane dicendo che voleva sposarla e mettere su famiglia, cosa di cui lei parlò all’amico del fiume. Ad entrambi parve cosa buona, e però né Ninetta né il giovane se la sentirono di interrompere il loro lavoro. Di sicuro Sacco di paglia non l’avrebbe mandata più al fiume a lavare i panni, e di sicuro sarebbe stato geloso. Nondimeno la giovane non si perse d’animo e disse al suo amico di fidarsi di lei: che si mettesse nascosto non lontano dalla sua casa, e appena il marito usciva vi entrasse, ma senza dare nell’occhio, per salvaguardare il nome della famiglia. Il giovane, dapprima tentennò, ma poi alla fine, vista la sicurezza della donna, si convinse.
Il giorno del plenilunio Ninetta si sposò e festeggiarono le nozze in un ristorante poco al di là del fiume. Fu una bella festa e tutti brindarono agli sposi e al loro felice futuro ed essi, alla fine, salutarono gli invitati per raggiungere la casa dei loro sogni. Un ponte di legno sconnesso collegava le due sponde e, quando la carrozza vi giunse, cominciò a saltabeccare paurosamente e, dopo che l’orrenda traversata fu compiuta, la giovane si sporse da un lato e cominciò a imprecare e a maledire contro le papere e la loro maledetta voglia di buttarsi in acqua. Alla fine degli improperi urlò inviperita che, se fosse dipeso da lei, avrebbe fatto deviare altrove quel maledetto corso d’acqua. Sacco di paglia le stava accanto allibito e senza parole. Con gli occhi spalancati guardava il cielo stellato a chiedere conforto e consiglio. Nel frattempo la donna cominciò a singhiozzare e a piangere a dirotto, finché lui non si decise a metterle una mano sulla fronte, quasi per farle rimettere quello che aveva mangiato.
“Ma non capisci – gli urlò lei in faccia – che quella dannata papera, attraversando il ponte, mi è scappata nel fiume e ora chissà dov’è, quella maledetta?” “E ora?” balbettò confuso Sacco di paglia, che di cose magari ne aveva pure, ma non in testa. “E ora non resta che tu vada al fiume con una lunga pertica e battere l’acqua su entrambe le sponde.” Sacco di paglia era incerto, ma lei vinse la sua incertezza con uno sguardo viperino subito sopravanzato da una voce suadente, materna e carezzevole. “Non ti spingere troppo nell’acqua sennò ti bagni e ti ammali. Non ti lasciar convincere di aver risolto il problema vedendo volare la prima, perché là di papere ce ne sono tante e non si sa qual è la mia. Non correre fin qua, ma chiama da lontano sennò ti stanchi e sudi.”
Sacco di paglia fece di sì col capo e lei aggiunse: “Speriamo che sia soddisfatta e torni presto!” Lui fece ancora di sì col capo e si chiuse alle spalle la porta che subito si riaprì per far entrare il giovane. Tutta la notte stette Sacco di paglia a battere l’acqua, e ogni volta che una papera scappava starnazzando lui le volgeva gli occhi speranzosi. Si erano fatte le due di notte quando, scoraggiato, urlò dalla strada: “È tornata? È soddisfatta?”, e lei dalla finestra ringhiò: “No! No!”
E tornò al fiume il poveretto a battere l’acqua, finché all’alba, per non dare nell’occhio, se ne tornò sconsolato per riprendere la caccia il giorno dopo. Trovò la porta aperta e la moglie seduta sul primo scalino sorridente. “Uh” fece lui, e la guardò. “È tornata! È tornata!” fece lei trionfante. “Non ci credo, – fece lui – fammi vedere se è vero!” E le allungò delicatamente la mano tra le gambe, che lei pazientemente allargò in un gesto estremo di pudore, come si addice a una novella sposa. Ma lui la ritrasse subito mormorando: “Accidenti a lei, è ancora tutta bagnata!”
Ferdinando Rogata
(da Fuori dalla Rete, Gennaio 2022, anno XVI, n. 1)