Ritornare nel proprio paese dopo mesi, rivederlo tre volte l’anno, è come vedere un bambino che cresce e ritrovarlo dunque cresciuto, notare i cambiamenti meglio di chi lo vede crescere giorno dopo giorno. Quando rivedi quel bambino già cresciuto, puoi ricordare meglio di chi lo vedeva sempre, perché in te il ricordo di quel bambino era l’ultimo, prima della nuova visione rinnovata. Chi torna dopo qualche mese ritrova il paese (o dovrebbe ritrovarlo) modificato in qualche modo, cambiato, evoluto o involuto.
Quello che si presenta a chi torna, è un bambino sempre uguale, sempre non cresciuto. Ogni volta che torno mi meraviglia sempre il modo in cui il tempo passato mi restituisca persone tanto maturate fisicamente, bambini diventati adulti, adulti diventati vecchi, il tempo che chiude le case con cartelli vendesi/affittasi in vista, che riempie di silenzi i quartieri un tempo palcoscenico serale di sedie e chiacchiericci di anziane che, come in un altro atto teatrale, subentravano alle sudate e scorribande dei ragazzini al sole; un tempo che fugge in un paese che, invece, rimane sempre lo stesso, che non cresce, non si sviluppa, non si evolve e non si rinnova. Il mio paese è un eterno bambino, e i discorsi di un tempo, le lotte e le battaglie, oggi le rammento con un senso di tenerezza, di ingenuità legata ad un’età del tutto è possibile.
Quello che più salta all’occhio, con manifesta immediatezza, è un senso di generale rassegnazione. Il bambino sorride, ma è un sorriso insensato, inconsapevole, quasi finto e mesto. Un tempo ha avuto degli slanci culturali, politici, sociali, oggi egli ripiega verso temi e campi più congeniali. Il panegirico dei politici ai politici, l’autocelebrazione della politica “always on” e della vetrinizzazione continua, la spocchia di taluni nella disabitudine al confronto e alla critica costruttiva, doverosa e sacrosanta, ha indotto il bambino allo scoramento, che ritorna alla consapevolezza dell’inutilità dell’atto. Il bambino ora nemmeno sfiora l’argomento, gli slanci di un tempo sono un lontano ricordo, l’adolescenza assaporata qualche volta ha portato un pizzico di esuberanza rientrata oggi nell’età del riposo, della pappa e della nanna. Oltre alla rassegnazione, emerge con altrettanta immediatezza l’indifferenza verso ogni questione connessa alla cultura e al sociale, indifferenza che sfocia in una diffusa abulia e apatia, in un oblomovismo dilagante.
Si può dire altrimenti prendendo le parole in prestito da Gaber: “vive, e questo già gli basta”, il nuovo conformista assomiglia un po’ a tutti noi, bada ai suoi interessi e se ne frega di tutto il resto. Ma se si ritiene che egli sia sempre esistito, ovviamente fatto ineluttabile, con quanto maggiorato amor proprio, menefreghismo e disimpegno lo faccia oggi, è ancor più ineluttabile. Lo scollamento del bagnolese verso i bagnolesi, sta nell’io appagato, sazio nel corpo e nelle convinzioni: vivendo fisicamente e mentalmente auto-confinato, senza titoli da marchese, si aggira tronfio e borioso pensando “io so io, e voi non siete un cazzo”.
Questo atteggiamento diffuso di presunzione ha prodotto un’inerzia collettiva, così per le strade, in piazza, nei bar e nelle case, dove un tempo si innescava il dialogo e il confronto, oggi la messa in scena della propria vita invidiabile prende tutto, della persona che gira, vede gente, fa cose. Oramai le storie sui social invadono anche la realtà, siamo le storie che vogliamo che la gente veda e senta, il confronto è oggi solo fondato sulla comparazione, sull’affannosa dimostrazione di chi è andato più lontano e più volte, su chi ha fatto e visto questo o mangiato quest’altro, su chi può vantare presunta bellezza, successo e benessere.
Un confronto tra storie, storie sui social e le stesse proiettate fuori con parole, storie di noi e di una corsa alla competizione dove nessuno vince e tutti si affannano (“consumati nel farsi dar retta”, direbbe De André), così che ogni persona possa rimanere inappagata per una vita minore, o appagata per una finta vita migliore.
Ecco dunque che, se da un lato certe condizioni generali contemporanee dell’uomo già mortificano l’impegno civile e politico, il pensiero critico, il dialogo e il confronto, dall’altro il mio paese ne risente ancor più gravemente proprio per questo suo ripiegare su se stesso, così se ognuno crede di sapere tutto, ognuno crede di dover parlare e nessuno crede di dover ascoltare, ognuno crede di dover insegnare e nessuno crede di dover imparare, nessuno può permettersi di mostrarsi impreparato, da lì fuori dobbiamo tornare non con più cose, ma con più convinzioni e presunte persone affascinate dal nostro io. La politica nel mio paese per esempio, di riflesso, è diventata una pratica della propria ostentazione scenica, storie vuote di gente politicamente vuota, di soliloqui e autocelebrazioni, incantamento e spettacolarizzazione del nulla, tanto da farci rassegnare serenamente ad un tempo anestetizzato fatto di sorrisi e aperitivi, che ci induce a farci fare seraficamente i fatti nostri e a pensare: “ma chi me lo fa fare”.
Sorridiamo, stiamo in silenzio, approviamo, ce ne freghiamo, e ce ne andiamo. Impegnarsi vuol dire avere qualche cosa da dire, e poi trovare il coraggio per farlo. Oggi non c’è nulla da dire, e il coraggio che serve per altre faccende, nemmeno per il confronto, la critica e il dissenso si desta dalle mie parti. In questo tempo così sospeso, torpido, quieto, calmo e vuoto, il timore è quello di svegliare il bambino che dorme, disturbare il sonno della ragione, meglio lasciarlo lì assopito nella sua culla e nel suo stato infantile, inconsapevole del mondo che sta lì fuori che non è pronto ad affrontare, un mondo ben più cresciuto e tanto diverso dalle sue sole esperienze senso-motorie.
Mi abbandono a questi piacevoli torpori puerili estivi: ordinerò un’altra Guinness, donerò qualche altro sorriso, saluterò un’amica ritrovata, e passerà anche questa estate.
Alejandro Di Giovanni
(da Fuori dalla Rete, Ottobre 2022, anno XVI, n. 4)