Dopo la spaventosa crisi economica del 1929 alcune nazioni del mondo occidentale, Stati Uniti in testa, misero in atto politiche di sviluppo (keynesiane, dal nome dell’economista che le aveva proposte, J. M. Keynes), guidate e finanziate dagli stati, con interventi ed investimenti per opere pubbliche e per creare reddito, capaci di dare, alla fine, decenni di benessere, di alti salari, di pensioni, di assicurazioni contro le malattie, di scuola e sanità gratuite. Altri Stati non seguirono la stessa strada; il nazismo fu anche e soprattutto figlio di quella crisi.
Nel 2008 la crisi scoppiò, come nel 1929, negli Stati Uniti. Significativa ed epocale è la foto degli impiegati di una delle più importanti banche del mondo, la Lehman Brothers, che abbandonano la sede newyorchese portando con sé gli scatoloni nei quali avevano riposto gli effetti personali.
La crisi era figlia della finanziarizzazione esasperata dell’economia, scelta come ricetta economica già alla fine degli anni “70 del secolo scorso, e rafforzata nei suoi effetti dalle politiche liberiste messe in atto nel decennio successivo da politici ultraconservatori, come l’allora Presidente americano Ronald Reagan e la premier inglese Margareth Thatcher. Il mercato doveva essere completamente libero; lo Stato non doveva in alcun modo intervenire nell’economia.
Era il credo della cosiddetta “teoria classica” dell’economia (aggiornata e diventata “neoclassica”) basata sul pensiero economico di Adam Smith (“La ricchezza delle nazioni”, opera del 1776!!!!) e di David Ricardo. Per essa il tornaconto individuale in una società libera (cioè senza alcuna limitazione da parte degli Stati) è la vera molla del progresso. Gli interventi governativi sono il maggiore impedimento allo sviluppo economico. Nei momenti di crisi del sistema capitalistico bisogna rafforzare il sistema finanziario e basta: la crisi stessa farà abbassare i prezzi e i salari e riporterà il sistema in equilibrio (ovviamente con milioni di persone alla fame…).
Nel 2008 il contagio si estese ben presto dagli Stati Uniti al mondo intero, provocando caduta degli investimenti, dei redditi e dei consumi, aumento della disoccupazione, recessione.
Il governo americano, però, dopo aver lasciato fallire la Lehman Brothers, decise di intervenire, immettendo nel sistema economico qualcosa come 8.000 miliardi di dollari, chiudendo i ponti con il credo reaganiano e riuscendo ben presto a tirar fuori il Paese dalla recessione.
In Europa alcuni Stati che potevano permetterselo (Germania, Francia e Gran Bretagna) salvarono il proprio sistema finanziario ed economico con un intervento complessivo di circa 600 miliardi di euro.
Le istituzioni finanziarie dell’Unione Europea, invece, intervennero solo quando subentrò la crisi finanziaria dei paesi con alto debito pubblico (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda). Ma per quelle istituzioni la cura economica era piuttosto semplice: 1) Aumento delle imposte; 2) Riduzione delle spese in presenza di riduzione delle entrate; 3) Conferma del Patto di Stabilità europeo. Insomma: la cura “neoclassica”.
Ma la terapia ammazzò, o quasi, l’ammalato.
La Grecia finì nella recessione più forte della sua storia. In Spagna, Portogallo e Irlanda la disoccupazione raggiunse livelli insopportabili.
In Italia abbiamo avuto, in conseguenza di queste politiche: aumento drammatico della povertà; aumento della disoccupazione; tagli drastici alla Scuola, all’Università e ai servizi sociali, alla Sanità (!), agli Enti Locali; aumenti dell’IVA e dei carburanti,e questi ultimi, essendo indiscriminati, hanno colpito soprattutto i redditi più bassi; impoverimento del ceto medio, con diminuzione del reddito disponibile e, quindi, del potere d’acquisto. Qualche dato, riferito all’anno 2009:
- Prodotto Interno Lordo: -5%;
- Rapporto deficit/PIL: 5,3%;
- Produzione Industriale: -15%;
- Aumento del debito nel triennio 2008/2010: dal 103% del PIL al 119% del PIL;
- Interesse medio sui titoli di Stato: 8%.
Insomma la crisi ha impoverito il Paese e le ricette economiche neoclassiche lo hanno quasi ammazzato. Persino il debito pubblico è aumentato a dismisura, nonostante quelle ricette avessero anzitutto l’obiettivo di ridurlo. La via indicata dalla “teoria neoclassica” è stata un fallimento. Non solo: in questi stessi anni, in Europa e nel mondo intero, sono cresciute le forze politiche che si richiamano al sovranismo e al nazi-fascismo, come reazione all’impoverimento complessivo e alla sensazione di abbandono della parte più povera della popolazione (la storia non fa altro che ripetersi).
Una breve parentesi: la teoria neoclassica si fonda sul rigore di bilancio e sulla fiducia cieca nella capacità dei mercati di autoregolarsi e di risolvere da solo i problemi. E’ una evoluzione della “classica” di Adam Smith e David Ricardo, in quanto ammette l’intervento dello Stato, ma solo con lo strumento “monetario”. Lo Stato cioè, in caso di crisi, tira fuori altri soldi per salvare banche e sistema finanziario: è un modo elegante per dire che quando ci sono i profitti questi toccano agli imprenditori, quando ci sono perdite queste se le accolla lo Stato… La “neoclassica” è nata per affossare la teoria cosiddetta “keynesiana”, che prevede, al contrario, l’intervento dello Stato, con investimenti per dare risposte alla disoccupazione e sostenere la domanda di beni, oltre a riforme per cambiare il liberismo sfrenato e le speculazioni finanziarie.
Da questo ultimo punto di vista è molto interessante la posizione degli studenti di economia della PCES (Post-Crash Economics Society) dell’ateneo inglese di Manchester, i quali hanno scritto nel 2017 che, nelle Università, la teoria economica insegnata è ormai soltanto quella “neoclassica”, che, come già detto e ripetuto, prevede come dogmi quelli del neoliberismo sfrenato: dalla precarizzazione del lavoro alle privatizzazioni selvagge, dal ritiro dell’intervento pubblico in economia al mercato libero e privo di freni.
Queste “regole” la fanno ormai da padrone da decenni, nel mondo della teoria e della politica economica dei vari Stati, e sono sostenute da professoroni che ogni giorno bacchettano chi la pensa diversamente e vuole porre limiti al liberismo selvaggio, il quale ha impoverito qualche miliardo di persone e accentrato le ricchezze nelle mani di pochi.
Qualche dato in proposito (del World Economic Forum del 2018, una specie di Confindustria mondiale, che ogni anno, a Davos, in Svizzera, fa il punto della situazione economica mondiale) relativo al 2017, cioè a 10 anni dalla crisi:
- 62 persone hanno la stessa ricchezza di metà dell’umanità;
- L’1% della popolazione mondiale ha la stessa ricchezza dell’altro 99%;
- Negli ultimi 25 anni l’1% della popolazione ha visto moltiplicare per 182 il proprio reddito, mentre il 10% più povero vive con lo stesso reddito di 25 anni fa;
- Il reddito medio dei 26 paesi più ricchi è diminuito del 3% tra il 2008 e il 2013.
Infine un esempio indicativo dei giorni nostri, che chiarisce ancora meglio che cosa intendo dire. Agli inizi di Dicembre 2019 Unicredit, una delle più importanti banche italiane ed europee, ha presentato il proprio piano industriale che prevede, entro il 2023, di licenziare 8 mila dipendenti (su 84 mila, cioè il 10% dei lavoratori in forza alla Banca) e, nello stesso periodo, di distribuire agli azionisti 8 miliardi di profitti … Insomma, a pagare devono essere i meno garantiti.
Con la crisi attuale, dovuta al blocco di ogni attività a causa del coronavirus, lo schema si ripete. Di nuovo i liberisti, i sostenitori del libero mercato, come quelli che “non capisco perché pago le tasse…”, sono tutti lì ad invocare l’intervento dello Stato, lo stesso che normalmente raffigurano come un vampiro. Vogliono l’intervento dello Stato, dopo averlo spinto a privatizzare tutto il possibile …
Non so se ci avete fatto caso: da quando le autostrade sono state privatizzate, i caselli sono diventati quasi tutti automatici, col risultato che le file, per chi non ha il Telepass, a volte sono esasperanti e, soprattutto, non trovi un cane disposto a darti una mano se la macchinetta non riconosce i tuoi venti euro. E a Genova è crollato un ponte, facendo 43 morti e bloccando una intera città. L’efficienza dei privati …
Non parliamo poi delle Poste, gestite di fatto come un’ azienda privata. Nel 2019 hanno guadagnato 5 miliardi di euro. Già. Però una lettera spedita con posta prioritaria impiega 7 giorni per arrivare. Una raccomandata 15. E il postino continua a suonare due volte, ma alla settimana…
Infine l’acronimo ASL sta per Azienda Sanitaria Locale, come se un manager sappia come curare le persone che muoiono; come se lo scopo di un ospedale fosse produrre profitto e non curare malati. E inoltre la metà degli ospedali in alcune regioni (leggi Lombardia …) è in mano ai privati.
Il coronavirus, però, ci ha fatto capire che ci vuole più Stato! Non solo nella Sanità che, in mano a tre regioni “eccellenti” a nord del Po (Lombardia, Piemonte e Veneto), ha fatto i due terzi dei morti in Italia, ma anche in settori strategici dell’economia che non è possibile lasciare in mano a squali affamati, pronti ad arraffare i profitti quando le cose vanno bene (e magari a portare i soldi all’estero), e poi a diventare un coro di prefiche quando vanno male, abituati a ricattare la comunità nazionale con la minaccia di licenziare i dipendenti; a trasferire il fardello alla cassa integrazione pagata dai cittadini; a chiedere il ristoro dei danni economici dovuti alla crisi, e magari, per lamentarsi, scrivono ai giornali da qualche albergo a cinque stelle di Montecarlo.
Certo che ci vuole più Stato. Ma sempre, non solo quando il ciclo economico è sfavorevole. Sempre, non solo quando lo chiedono gli squali.
Più Stato, perché solo in questo modo è possibile evitare che la distanza tra ricchi e poveri, in Italia e nel mondo intero, continui ad allargarsi e diventare incolmabile, con seri rischi di tenuta della stessa democrazia.
Luciano Arciuolo
(da Fuori dalla Rete, Maggio 2020, anno XIV, n. 2)