In occasione del triste anniversario della tragedia del Ponte Morandi a Genova e senza l’impeto dell’appena accaduto vorrei, se possibile, fare un poco di chiarezza. L’ing. Morandi era all’epoca considerato nel mondo uno dei massimi esponenti dell’ingegno italiano per la progettazione di ponti. Il ponte sul Polcevera a Genova è un’opera del 1957, quando era generalizzata la convinzione che la durata del calcestruzzo armato sarebbe stata eterna o quasi, ed il precompresso che era agli albori, avrebbe consentito miracoli ulteriori, anche molto superiori a quelli del c.a.. L’opera, così impegnativa, oggi farebbe tremare i polsi ai più grandi progettisti, nonostante la disponibilità di tutti gli strumenti informatici attuali; eppure è stata affrontata solo con l’ingegno e la professionalità dello studio Morandi, con l’unico strumento di calcolo allora disponibile, il regolo calcolatore.
Aggiornamento del 02 agosto 2019
Anni di mancate manutenzioni efficaci a contrastare degrado e corrosione ma anche «difetti esecutivi» rispetto al progetto originario. Eccoli i due «indiziati» principali per il crollo del ponte Morandi, il viadotto autostradale di Genova collassato un anno fa causando la morte di 43 persone. A metterlo nero su bianco sono i tre periti del giudice per le indagini preliminari Angela Nutini nella risposta al secondo quesito del primo incidente probatorio. Gli esperti hanno esaminato le condizioni di conservazione e manutenzione dei manufatti non crollati e delle parti precipitate.
L’inchiesta vede indagate 71 persone, insieme alle due società Autostrade e Spea. I reati, a vario titolo, sono di omicidio colposo, omicidio stradale colposo, disastro colposo, attentato alla sicurezza del trasporti e falso. Secondo Aspi, invece, la relazione «allontana la causa del crollo dallo strallo». «Per quanto riguarda la situazione dello strallo della pila 9 – scrive Autostrade – la relazione dei periti riporta soltanto la classificazione degli stati di corrosione dei fili di acciaio componenti i trefoli, classificazione determinata in modo sommario e quindi utilizzabile soltanto ai soli fini descrittivi. Tale classificazione consente comunque di escludere che sia stato lo strallo la causa primaria del cedimento».
I docenti universitari che hanno lavorato per il gip hanno fotografato lo stato di quello che resta del Morandi. In particolare per quanto riguarda il reperto 132 (l’ancoraggio dei tiranti sulle sommità delle antenne del lato Sud), considerata dalla procura di Genova la prova «regina» perché è il punto che si sarebbe staccato per primo, i periti hanno individuato nei trefoli «uno stato corrosivo di tipo generalizzato di lungo periodo, dovuto alla presenza di umidità di acqua e contemporanea presenza di elementi aggressivi come solfuri, derivanti dello zolfo, e cloruri». Una fotografia impietosa quella scattata dagli esperti: il 68% dei trefoli del gruppo primario, situato all’interno del tirante, e l’85% di quelli più esterni, avevano una riduzione di sezione tra il 50% e il 100%. Corrosione a cui non si è posto rimedio. «Non si evidenziano interventi atti a interrompere i fenomeni di degrado» scrivono i tre, «gli unici ritenuti efficaci risalgono a 25 anni fa».
A peggiorare lo stato della struttura ci sarebbero anche difetti di esecuzione. Alcune guaine, scrivono gli ingegneri, non sono iniettate del tutto o lo sono parzialmente e i trefoli possono essere estratti manualmente per questo motivo. Dove sono emersi difetti di esecuzione, «i cavi secondari sono spesso liberi di scorrere: alcuni trefoli non sono stati trovati dentro le guaine. In generale i cavi secondari nelle guaine presentano fenomeni di ossidazione e, in alcuni casi, con riduzione di sezione, i quali hanno effetti diretti sulla sicurezza strutturale». Stesse valutazioni anche per le parti rimaste in piedi, dove in alcuni punti è stato riscontrato uno «stato di conservazione caratterizzato da un livello generalizzato esteso e grave di degrado».
Ponte Morandi
In riferimento alla tragedia del Ponte Morandi utilizzando una parte del lavoro fatto dal CNI (Consiglio Nazionale Ingegneri) tramite il suo portale citando colleghi di calibro vorrei rendere maggiormente edotti i nostri lettori.
Il crollo del ponte Morandi a Genova
Il crollo del ponte Morandi, un doveroso approfondimento tecnico
Alle 11.36 del 14 agosto 2018 sotto una pioggia incessante, un boato assordante ha squarciato la città di Genova cancellando per sempre dalle cartine autostradali un tratto importantissimo della viabilità della città ligure e un pezzo della storia dell’ingegneria italiana: un tratto del viadotto sul Polcevera, un tratto del famosissimo Ponte Morandi, crollava portando con se 43 vittime.
Qualche dato sul ponte Morandi
Lungo 1.182 metri il ponte Morandi presenta un’altezza al piano stradale di 45 metri e attraversa il torrente Polcevera tra i quartieri di Sampierdarena e Cornigliano, passando anche sopra la rete ferroviaria. Il viadotto, progettato da Riccardo Morandi, aveva lo scopo di connettere la nuova A10 con la A7, scavalcando un vasto parco ferroviario, case e industrie.
Facendo parte del tracciato dell’autostrada A10 costituisce un’infrastruttura strategica per il collegamento viabilistico fra il nord Italia e il sud della Francia oltre a essere il principale asse stradale fra il centro-levante di Genova, il porto container di Voltri-Pra’, l’aeroporto Cristoforo Colombo e le aree industriali della zona genovese.
Inaugurato nel settembre 1967, dopo 4 anni di lavori, il viadotto Polcevera rappresenta una pietra miliare nella storia delle autostrade italiane, sia per la complessità della soluzione tecnica, sia per l’elevato risultato estetico. Si trattava di un compito arduo, data la quasi totale occupazione del suolo sotto il viadotto: esso venne brillantemente risolto con una raffinata struttura a due campate principali (lato est), sorrette da tre alti piloni e tiranti in calcestruzzo armato, cui seguivano verso ovest ulteriori campate minori tradizionali. Due le particolarità strutturali di questo ponte: gli stralli, che a differenza di quanto avviene per i ponti in acciaio non formano un ventaglio o un’arpa, sono solo una coppia per lato e sono realizzati in calcestruzzo armato precompresso; le modalità di realizzazione dell’impalcato (la parte che sostiene direttamente il piano viabile) in calcestruzzo armato precompresso, secondo un brevetto ideato dallo stesso Morandi. (cit. Occhiuzzi)
Scheda tecnica del Ponte Morandi
> Anno di costruzione: 1963-1967 (inaugurato nel 1967)
> Campata maggiore: 210 m
> Lunghezza: 1182 m
> Tecnologia costruttiva: calcestruzzo armato precompresso
> Forma delle pile: cavalletto rovesciato bilanciato
> Altezza delle pile: 90 m
> Stralli: Trefoli in acciaio rivestiti di calcestruzzo
Chi è Riccardo Morandi
Riccardo Morandi (Roma, 1º settembre 1902 – Roma, 25 dicembre 1989) è stato un ingegnere italiano. Ha iniziato la sua attività in Calabria, sullo scorcio degli anni venti, con la progettazione di strutture in cemento armato per il recupero di edifici di pregio (principalmente chiese) che riportavano ancora i danni del terremoto del 1908. Tornò poi a Roma continuando lo studio o la soluzione dei problemi tecnici connessi a questo tipo di struttura (allora nuova per l’Italia), ricca di promesse e di avvenire. Insegnò Tecnologia dei materiali e Tecnica delle costruzioni presso l’Università degli studi di Roma. Ricevette la laurea honoris causa dalla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Monaco di Baviera e dalla Facoltà di Architettura dell’Università di Reggio Calabria. Morì il 25 dicembre 1989.
Egli rappresenta l’uomo che con maggior coraggio ha cercato di superare i limiti del materiale e delle forme strutturali. La leggerezza delle sue strutture e le loro stesse forme e proporzioni, testimoniano una continua ricerca di una intelligente utilizzazione del materiale fino ai limiti consentiti dalla sua natura. Dopo il 1951 egli realizzò tutta una serie di ponti ad arco e a travatura: il ponte delia Vella, presso Sulmona di 22 metri e con cavalletti obliqui; il viadotto della Fiumarella (Catanzaro), lungo 467 m; il ponte di Maracaibo in Venezuela lungo otto chilometri e settecento metri; il viadotto sul Polcevera a Genova (quello crollato). Fra le molte opere egli realizza anche un hangar a Firenze, che ricopre un’area di 3.500 M2 senza sostegni intermedi; il padiglione sotterraneo dell’automobile a Torino, superficie senza appoggi di 160 m per 70 m e le aviorimesse Alitalia a Fiumicino (1960-1962)
Il crollo del viadotto
Il 14 agosto 2018 la sezione del ponte che sovrasta la zona fluviale e industriale di Sampierdarena, lunga circa 250 metri, è crollata insieme al pilone occidentale di sostegno (pila 9) provocando 43 vittime fra gli automobilisti che transitavano e tra gli operai presenti nella sottostante area.
Il viadotto sul Polcevera: Ecco l’articolo di Riccardo Morandi del 1967 con tutti i dettagli progettuali
Nel 1967 l’ing. Riccardo Morandi – pochi mesi dopo l’inaugurazione del ponte strallato di Genova pubblicò un articolo su l’Industria Italiana del Cemento dal titolo “Il viadotto sul Polcevera per l’autostrada Genova Savona.Dopo una breve descrizione del contesto geografico e morfologico in cui l’opera è stata realizzata l’ingegnere entra nel merito della descrizione generale dell’opera.
Il ponte Morandi: descrizione generale dell’opera.
Il viadotto consta delle seguenti luci teoriche (a partire dalla spalla terminale lato Savona):
una luce da 43 m
cinque luci da 73,2 m
una luce da 75,313 m
una luce da 142,655 m
una luce da 207,884 m
una luce da 202,50 m
una luce da 65,10 m
E Morandi evidenzia che “le luci, di così disparata ampiezza, trovano il loro legame di consezione in una serie di travste tutte uguali di calcestruzzo precompresso della luce di 36,00 m, vincolate a semplice appoggio su una serie di sistemi speciali, tra cui potremmo distinguere due diversi tipi fondamentali:
- il sistema a a cavalletto per le luci minori costituito da due stilate oblique collegate in testa da una travata a doppio cantilever di lunghezza variabile. Il tutto di calcestruzzo armato, vincolato al piede da una zattera a sua volta poggiata su una palificata fondale di pali trivellati dal diametro di 110 cm e di lunghezza variabile fino a 48 m.
- il sistema bilanciato per le luci maggiori. Detto sistema è costituito da una travata continua a 3 luci su quattro appoggi con due sbalzi teminali alle cui estremità sono appoggiate le travi da 36 m di cui sopra
I due appoggi più esterni dei quattro vincoli della travata sono costituiti dai terminali di due tiranti in acciaio pretesi che passano al di sopra di un’antenna disposta in corrispondenza dell’asse del sistema dell’altezza di 90 metri da terra e di circa 45 m sul piano viabile del ponte”.
Morandi descrive quindi dettagliatamente tutta la bilanciatura del sistema Viadotto, riportando che in corrispondenza del nodo di attacco dei tiranti di sospensione la travata presenta un robusto traverso in calcestruzzo armato precompresso “agli estremi del quale, da ambo i lati del ponte, risultano assicurati due fasci di cavi che costituiscono i tiranti e scavalcano l’antenna a quota 90 metri da terra.”
L’articolo prosegue con la descrizione delle altre parti del sistema con dettaglio di misure e informazioni tecniche.
Il viadotto Polcevera: le caratteristiche del progetto
Morandi avvia la descrizione delle carattestiche del progetto partendo dalle fondazioni e dalla necessità di dover realizzare dei pali profondi considerata la natura limosa del terreno.
Viene quindi dato il dettaglio delle caratteristiche delle principali fondazioni “quasi tutte realizzate mediante l’uso di palificate in calcestruzzo armato, di tipo convenzionale trivellato di diverso diametro”.
Poi passa alla descrizione progettuale delle strutture di raccordo, indicando anche le quantità di calcestruzzo impiegato.
La parte più interessante è ovviamente quella che riguardano il tratto delle grandi luci, ovvero tra gli appoggi 8 e 11.
“Il tratto del viadotto delle grandi luci, e precisamente quello tra la pila 8 e la spalla 12, è costituito da tre speciali sistemi bilanciati dei quali i sistemi 9 e 10 sono identici.
Si passa ad esaminare, ad esempio, il sistema n.9 che costituisce un’entità strutturale continua a sé stante e collegata al resto dell’opera da elementi semplicemente appoggiati su di esso … il sistema bilanciato consta di una travata continua a tre luci con sbalzi terminali della lunghezza totale di 171,884 m, a sezione cellulare cava a cinque scomparti, con soletta estradossale dello spessore di 16 cm, n. 6 nervature dello spessore variabile da 18 cm a 30 cm ed una soletta intradossale dallo spessore di 16 cm. L’altezza della travata è variabile da un massimo di 4,5 m a un minimo di 1,82 m.”
Ed ecco i particolari che interessano di più ai progettisti, i vincoli
“La struttura continua di cui sopra è vincolata al resto in quattro punti:
- due centrali, posti alla distanza tra loro di 41,64 m su due stilate inclinate, ciascuna composta di quattro pilastri di sezione variabile tra un minimo di 200 cm per 120 cm ad un massimo di 450 cm per 120 cm, ed incastrata alla base sul blocco di fondazione;
- due laterali, alla distanza tra loro di 151,872 metri, ad un doppio sistema di tiranti che passano al di sopra di uno speciale cavalletto denominato antenna che, dipartendosi anche esso dal blocco di fondazione, risulta indipendente dalla travata, salvo, beninteso, il legame operato dal sistema dei tiranti”.
L’antenna del viadotto
“L’antenna è costituita da due strutture ad A collegate tra loro a metà altezza ed in sommità, dell’altezza di 90,20 m, con elementi strutturali di calcestruzzo armato di sezione variabile da 4,5 m per 0,90 m a 2 m per 2,956 m.
I tiranti del Ponte Morandi
Arriviamo alla parte più dibattuta in questi giorni: i tiranti del viadotto.
Morandi scrive che “I tiranti, costituiti da fasci di trefoli di acciaio speciale R = 170 kg/mm2 e del diametro nominale di mezzo pollice, sono collegati alla travata a mezzo di un apposito traverso e passano sopra l’antenna gravando su una speciale sella costituita da lamiere e profilati annegati nel getto del calcestruzzo. … per tale fase il tirante singolo è costituito da 352 trefoli da mezzo pollice mentre la travata risulta praticamente priva di armatura logitudinale …”
Morandi si sofferma nel descrivere anche l’operazione dei omogeneizzazione dell’opera, spiegandone caratteristiche e, soprattutto, i vantaggi:
“… i principali vantaggi che l’operazione di omogeneizzazione offre possono essere così riassunti:
eliminazione della fessurazione delle guaine e quindi eliminaione della possibilità di danneggiamento dell’acciaio per l’opera degli agenti atmosferici attraverso lesioni;
riduzione dell’ampiezza del campo di variazione delle sollecitazioni nell’acciaio con conseguente aumento della sicurezza per fatica dovuta a tensione ondulante”;
riduzione delle rotazioni della travata in corrispondenza degli appoggi sui ritti obliqui, per riduzione degli allungamenti dei tiranti al passaggio dei carichi accidentali;
riduzione degli spostamenti lingitudinali orizzontali della sommità del sistema antenna, per effetto di stese dissimmetriche di sovraccarichi accidentali”
Morandi prosegue quindi nella descrizione, compreso di una specificità del sistema 11
Il viadotto Polcevera: i materiali adottati
Morandi da le caratteristiche dei materiali impiegati.
e precisa anche le quantità di materiali impiegati per superficie di impalcato. Entra poi nel merito delle tensioni massime di esercizio nelle varie parti dell’opera. Metodi di esecuzione dei sistemi Bilanciati
In questo caso Morandi si sofferma sui sistemo adottati solo per la parte a grandi luci, anche perchè “occorre soprattutto non dimenticare che i detti sistemi bilanciati attraversano parchi ferroviari di intensissimo traffico in cui non vi sarebbe stato spazio per alloggiare supporti provvisori a meno di distrurbare in maniera insopportabile il movimento dei convogli.”Si tratta di un’affermazione che fa comprendere come all’esigenza di dotare Genova di un asse viario principali coincidessero una serie di complessità che portaro l’ing. Riccardo Morandi a dover trovare una serie di soluzioni innovative non solo dal punto di vista della progettazione ma anche della cantierizzazione del viadotto.
“Si è quindi dovuto adottare un metodo di esecuzione che accoppiasse le caratteristiche di estrema sicurezza e quelle di nessun ingombro ne soggezione per l’esercizio ferroviario.” … “Ovviamente si è dovuto preventivamante redigere il progetto delle varie fasi di esecuzione e per ciascuna di esse determinare le successive deformazioni e tensioni di ciascuna membratura.” … “Il calcolo delle deformazioni ha altresì obbligato ad una determinazione della legge di variazione dei moduli elastici dei calcestruzzi, al termine dei periodi di esecuzione di ciascuna fase”.
Queste limitate informazioni fanno comprendere la complessità del progetto dell’opera, nel 1967 in cui gli strumenti di calcolo erano davvero limitati rispetto ad oggi.
Ecco il piano di esecuzione
Il piano esecuzione è stato diviso in tre fasi successive:
getto dell’antenna e del cavalletto
getto simultaneo dei tratti C-D ed EF della travata
costruzione delle guaine di calcestruzzo e loro messa in funzione
Morandi in questa parte dell’articolo entra nei dettagli, riprendendo quindi tutti i passaggi per la realizzazione di questa fase davvero delicata di costruzione del viadotto, ricordando le precauzioni che sono state adottate per evitare problemi, come per esempio “La costruzione delle guaine di calcestruzzo è avvenuta avendo affidato ai tiranti le casseforme che hanno poi contenuto i getti. In un primo tempo tali getti sono stati suddivisi in conci di lunghezza di 3m, e questo perchè la variazione catenaria che si andava producendo nei tiranti per effetto del peso della guaina non inducesse in esso tensioni pericolose per distorsione”.
L’articolo si conclude con una parte sui costi e sulle attività di collaudo.
Infine Morandi non si dimentica di ricordare e ringraziare chi, con lui, ha partecipato al progetto e alla realizzazione.
Conclusioni
Ho cercato di ricordare le parti principali dell’articolo di Riccardo Morandi, ma non posso che consigliarne la lettura integralle (l’articolo è allegato qui in fondo al testo.).
L’attenzione ai particolari, alla descrizione delle soluzioni adottate rende evidente la complessità dell’opera da una parte, e la competenza e il genio con cui Riccardo Morandi seppe trovare le soluzioni, anche in tema di durabilità, considerando che oltre all’azione del gelo disgelo, delle nebbie saline per la vicinanza al mare ci si trovasse in una zona di produzione metallurgica e quindi con un aggressione anche di altra natura.
E’ davvero un peccato pensare che nei cinquantanni successivi in cui l’opera ha funzionato non siamo stati in grado di proteggerla ed evitarle questo crollo. Un crollo che non intacca ne i meriti ne il valore di Morandi, ne della scuola dei ponti italiana, che è stimata in tutto il mondo. Molte invece sono le questioni che restano aperte sia su come queste opere siano monitorate, che come vengano gestite.
Dopo il crollo del viadotto Polcevera, detto anche ponte Morandi, abbiamo purtroppo sentito di tutto, anche sul fatto che l’ing. Riccardo Morandi fosse un genio della costruzione di ponti e, più in generale, della tecnica delle costruzioni. Per farvi capire chi era Morandi vi riporto un suo articolo pubblicato nel 1958 su “Atti e Rassegna Tecnica”, rivista della SIAT – Società Ingegneri e Architetti di Torino, annoverata tra le più antiche associazioni italiane in attività .
L’articolo di Morandi “Su alcune recenti realizzazioni di strutture in cemento armato e cemento armato precompresso”.
Nell’articolo sono molte le informazioni interessanti che si possono trovare per comprendere meglio le scelte che hanno portato alla progettazione del viadotto Polcevera, tra cui una che parla proprio del sistema dei tiranti che è stato adottato, però del simile ponte realizzato sul lago di Maracaibo:
“Se avessi previsto dei semplici tiranti di acciaio mi sarei imbattuto, per il passaggio dei carichi accidentali (penso in particolare a quelli severissimi ferroviari) in due serie difficoltà: la prima che l’allungamento dei tiranti dovuti al suddetto passaggio dei carichi avrebbe lesionato qualsiasi guaina in calcestruzzo gettata a loro protezione e che l’allungamento stesso sarebbe stato di tale entità da disturbare addirittura il transito dei veicoli ferroviari sul ponte (l’abbassamento della sede stradale sarebbe stato di circa 1 metro).
Ho pensato quindi che se i cavi di acciaio fossero stati pretesi in maniera tale che una guaina di calcestruzzo preventivamente disposta intorno ad essi fosse risultata compressa, il passaggio dei carichi avrebbe operato su di essa soltanto una diminuzione di compressione, senza mai raggiungere il valore zero, per cui fossero da escludersi concettualmente le fessuraizonei e le deformazioni sarebbero state ridotte dal rapporto tra modulo elastico dell’acciaio e quello del calcestruzzo. E’ da considerare inoltre che la componente orizzontale della reazione, in corrispondenza del punto di innesco del tirante della travata orizzontale, costituisce uno sforzo di autocompressione della travata che contribuisce sensibilmente alla buona risoluzione economica del problema.”
Ponte Morandi: il peso proprio della struttura e le soluzioni adottate
Nell’articolo Morandi ci parla anche delle altre soluzioni adottate, in particolare per la gestione dei carichi del peso proprio della struttura.
“Come ho già detto, per quanto si riferisce al peso proprio della struttura, i due sistemi risultano bilanciati e la risultante delle azioni passa per le verticali delle due pile antenne. Il passaggio dei carichi invece determina una dissimetria delle azioni entro le due braccia dei tiranti, ed a sua volta induce sulle antenne degli sforzi tensionali che hanno obbligato a determinare una condizione di congruenza tra le deformazioni elastiche dei tiranti e quelle delle antenne. Da considerare inoltre che il passaggio dei carichi sulla luce centrale non produce un sollevamento sensibile in corrispondenza degli attacchi dei tiranti sulle pile a cavalletto, posti ai limiti delle due luci adiacenti a quella centrale“
“Queste due ultime pile a cavalletto presentano altresì la caratteristica di permettere all’atto della messa in tensione dei tiranti, una certa traslazione sul piano orizzontale e questo allo scopo di poter utilizzare la componente sul detto piano orizzontale dello sforzo di pretensione dei tiranti medesimi quale tensione di auto-precompressione delle luci comprese tra le pile a cavalletto e le pile antenne.”
L’OPINIONE DI UN COLLEGA IMPORTANTE
L’importanza dell’opera di Morandi sull’evoluzione dei ponti e viadotti
Ormai sono passati alcune settimane da quel maledetto 14 agosto 2018 nel quale la nazione ha assistito alla morte di 43 concittadini vittime innocenti e nello stesso tempo al crollo di uno dei simboli della ricostruzione post-bellica. È forse il segno del destino, il segnale che questa Italia ormai si incammina lentamente verso il proprio declino?
I ponti di Morandi stanno sù ?
Purtroppo la reazione degli italiani è stata diversa da quella che io mi aspettavo, in qualche modo; loro cercavano solo il colpevole e lo hanno già trovato. Ormai nei bar, nei parchi giochi per bambini, nelle piazze del paese, al supermercato tutti sanno che “i ponti di Morandi non stanno su”. I sindaci del Bel Paese vanno nelle proprie città alla spasmodica ricerca di un ponte Morandi, se non lo trovano ne cercano anche un surrogato, uno “tipo Morandi”, da poter chiudere. Così aumentano il consenso nei confronti dei propri elettori.
Ponti, materia da specialisti
Io studio ponti da 30 anni, ho avuto un grande maestro, (sono uno degli allievi del Prof. Giuseppe Mancini), mi sono confrontato in giro per il mondo con colleghi, che fino alla mattina del 14 agosto ritenevano Morandi un grande dell’Ingegneria mondiale. So, perché alcuni di loro li ho sentiti anche dopo, che non hanno cambiato idea.
Ma allora perché gli italiani hanno emesso la loro personale sentenza. Gli italiani sono un popolo strano molto emotivo e umorale lontani dallo stereotipo del tecnico puro, quale credo di essere diventato io con gli anni. Non riflettono, usano l’istinto, e poi sono tuttologi: medici, avvocati, ingegneri, allenatori di calcio .. a secondo le necessità. Anche il mio panettiere, oggi, sa o crede di sapere cosà è un ponte strallato.
Io ci ho impiegato 30 anni per avere seri dubbi quando ne studio, progetto e analizzo uno. Lui, invece, in una settimana è giunto al punto di sentenziare sulla inidoneità del progetto di Morandi. Ma la cosa peggiore e sentirlo dire ai colleghi ingegneri che si sono uniti al coro.
Morandi è un genio, lo è stato e noi che amiamo i ponti, li abbiamo studiati, per passione prima che per lavoro, glielo riconosciamo. Egli è stato un visionario un precursore uno che ha fatto del motto latino di dannunziana memoria “memento audere semper” una ragione di vita professionale. Egli ha fatto fare all’Ingegneria dei “ponti in calcestruzzo” quel balzo in avanti che in tempi normali avremmo fatto in una trentina di anni. Non voglio qui cantare gli elogi dell’attività professionale di Morandi e quindi cercherò di spiegare la mia ragione solo su quella tipologia strutturale che oggi è oggetto di veementi attacchi: i ponti strallati di Morandi.Prima del 1962 quando fu realizzato il viadotto di “Puente General Rafael Urdaneta” (con 7 campate strallate di luce massima 235 m) nessuno aveva fino a quel momento pensato che potesse essere realizzato un ponte strallato in calcestruzzo armato precompresso, soprattutto su molte campate.Non è la sede, ne il momento per fare dissertazioni sui ponti strallati, che riservo solo ai miei allievi che spesso mi fanno capire, con il loro sguardi annoiati, che sto eccedendo in dimostrazioni troppo lunghe e troppo inutili, che li allontanano dalla realtà fisica del problema. Ma nel seguito cercherò di essere sintetico e nello stesso tempo preciso, sperando di essere alla fine efficace.
L’idea di sorreggere gli impalcati con tiranti inclinati che vengono rinviati su una torre è sicuramente molto antica e non è certamente di Morandi. Certo, il famoso crollo del primo ponte di Dryburgh sul Tweed in Scozia (79 m di luce) avvenuto nel 1818 e la successiva relazione sui ponti strallati del 1823 fatta dal celebre H. Navier, per il quale i ponti di grande luce dovevano essere solo sospesi, ne avevano rallentato lo sviluppo.
Ma in Europa nel dopoguerra ad opera di F. Dischinger essi erano prepotentemente ricomparsi e nel giro di 15 anni dai 183 m dello Strömsund (1955) ai 350 m del Duisburg Neuenkamp (1970) avevano riaffermato tutta la loro validità. Ma erano tutti con impalcato in acciaio: travi metalliche alte ad anima piena, piastra ortotropa, pochi stralli molto distanti l’uno dall’altro, realizzati con funi chiuse.
In realtà, qualche esempio di impalcato in calcestruzzo vi era stato, ma non era servito da modello per altri.
Il destino dei ponti strallati sembrava sempre più votato all’acciaio
Il destino dei ponti strallati sembrava sempre più votato all’acciaio. E gli esempi di cui abbiamo parlato erano composti solo da una campata centrale e due torri, nessuno ipotizzava a quel tempo più campate e più torri.
Poi arrivò Morandi e propone il suo modello di ponte strallato, il primo in precompresso e a molte campate, per l’epoca un balzo in avanti di proporzioni incommensurabili. Oggi qualche giornalista dice che il Ponte di Maracaibo, progettato male, crollò a seguito di un urto. Ma l’urto fu quello di una petroliera che aveva perso il controllo per una avaria ed avvenne su un tratto dei viadotti di accesso alle campate strallate. Seguì subito dopo la sostituzione della porzione danneggiata ed il viadotto di Maracaibo è tutt’oggi in servizio.
Ma quale era l’idea di Morandi: era semplice, sfruttare l’inserimento degli stralli, gli elementi tesi, inclinati che si che si ancoravano alle torri in sommità per usare a suo vantaggio, la loro componente orizzontale. Infatti, se questa era adeguatamente “liberata” forniva una benefica compressione all’impalcato contribuendo alla sua “precompressione” aggiuntiva.
Che invece la concezione strutturale di Morandi fosse completa e chiara nella sua mente, tanto da permettergli la progettazione in serie di alcuni ponti e viadotti fatti con lo stesso sistema, è noto, basta rivedersi la bellissima lezione che Egli tenne all’Istituto “E. Torroja” di Madrid il 22 marzo 1973 dal titolo “Costruzione di ponti di calcestruzzo precompresso, di grande luce, con tiranti omogeneizzati” (vedi articolo)
In quella dissertazione, fatta davanti ai migliori ingegneri di Spagna, Morandi mentre illustrava le sue opere, sia quelle realizzate sia quelle per le quali aveva vinto il concorso di progettazione e che poi non furono mai realizzate, esponeva i principi teorici che avevano ispirato queste realizzazioni:
Il perché aveva adottato le travi tampone che, a differenza dell’impalcato in acciaio per quelli in calcestruzzo, portavano l’immediato vantaggio di avere la compressione dello stesso (la componente “liberata”).
Il tesaggio controllato degli stralli per ottenere la configurazione di appoggi fissi sotto il peso proprio, per ridurre gli effetti flettenti sull’impalcato e sulle pile.
La realizzazione di pile rigide sui sistemi a più campata per contenere gli effetti flettenti sulle pile dei carichi variabili.
La realizzazione della protezione sugli stralli con il calcestruzzo precompresso che al contempo perseguiva il vantaggio di contenere le sollecitazioni per fatica negli stralli stessi e l’omogeneizzazione del sistema in modo da poter applicare i principi della viscoelasticità solo quelli fino ad allora conosciuti. Ricordo a tutti, così come me lo ricorda il mio Maestro, come ancora erano da venire i pregevoli lavori di Mola sulla ridistribuzione delle sollecitazioni in presenza di elementi interni elastici ma non viscosi. E come in quegli anni due grandi quali Franco Levi e Placido Cicala si interrogassero sul tema dell’applicabilità del primo principio al caso di strutture dotate di parti o di vincoli esterni elastici ma non viscosi (come gli stralli di acciaio non costituiti da elementi in calcestruzzo precompresso).
Se fino a quel momento i ponti strallati erano stati fatti in acciaio e non in precompresso c’era quindi un motivo. Sono state le intuizioni geniali di un italiano “Riccardo Morandi” a far si che nascessero ponti in calcestruzzo armato.
Senza le sue visionarie proposte l’impiego del precompresso negli impalcati dei ponti strallati avrebbe faticato un po’ ad affermarsi.
Oggi sappiamo chi ringraziare per le sue ardite intuizioni.
È chiaro certo, che l’opera va contestualizzata al periodo; oggi nessuno si sognerebbe di fare un ponte strallato con impalcato in calcestruzzo prendendo a modello il Wadi el Kuf. Ma senza questo non ci sarebbero stati gli insegnamenti dallo stesso forniti.
Se il 3 dicembre del 1967, a Città del Capo, Christiaan Barnard non avesse effettuato il primo trapianto di cuore dell’umanità, oggi molti pazienti non avrebbero speranze di vita ulteriori. Ma da allora la medicina ha fatto altri passi ed oggi affrontare questa operazione non è così terribile.
La medesima cosa è successa nell’ingegneria dei ponti strallati. Oggi ai progettisti è chiaro che per ridurre l’altezza dell’impalcato occorre ricorrere a più appoggi intermedi. E, peraltro, l’adozione di sistemi multistrallati ha il vantaggio di offrire una maggiore robustezza al ponte, potendo ipotizzare la rottura anche di due stralli contigui senza compromettere la sua sopravvivenza.
È chiaro, altresì, che un viadotto strallato a molte campate ha bisogno di pile rigide e quindi con schema a triangolo come nel caso per esempio del Ponte Rion Antirion, con luci massime di 560 m (2004 – Grecia), ma il primo ad averle adottate è stato proprio Morandi.
Infine, è chiaro oggi che la sostituibilità degli stralli è la regola e non l’eccezione, perché, per quanto facciamo di tutto per proteggerli, la possibilità che si corrodano o che si rompano prima del tempo non è remota. Quindi i controlli devono essere continui e accurati, prevedendo ampi margini di sicurezza e possibilità di interventi in tempi brevissimi. Con la tecnologia di oggi questo è possibile.
Ma non riesco neanche ad immaginare cosa avrebbe progettato Morandi se avesse avuto a disposizione ai suoi tempi la tecnologia attuale.
Chi è il colpevole quindi? Io penso che siamo noi tutti, noi che non siamo in grado di difendere quello che i nostri padri avevano realizzato per noi. Oggi forse con i nostri codici e le nostre leggi, noi un’Autostrada del Sole non saremmo più in grado di farla. Abbiamo la tecnologia, ma ci facciamo del male con la burocrazia. I mille passaggi, i mille accertamenti, voluti dal legislatore per rendere più controllabile tutto, hanno finito per bloccare i processi decisionali. La nazione deve utilizzare questa tragedia immane come leva di rinascita, prima che tutto quello che ci è stato lasciato rovini su di noi seppellendoci, definitivamente. Ci sono versanti, corsi d’acqua, strade, ponti, scuole, chiese, edifici pubblici e privati che devono essere controllati, adeguati e rinforzati perché un centesimo speso ora, ce ne farà risparmiare dieci, forse cento, tra qualche anno.
Ing. Memoli Aniello