C’è chi dice …
…che siamo difronte a quello che potrebbe essere considerato un ulteriore esodo di massa al Nord o altrove, fatto di valige non più di cartone, questo è vero, però molto, sempre di più simile a quello compiuto dai nostri avi. La veridicità di questa affermazione sta nei dati Istat e nelle assemblee pubbliche organizzate sul tema dello spopolamento.
Oggi, a pochi giorni dal Primo Maggio: Festa del Lavoro, ma soprattutto festa dei lavoratori, giovani e vecchi che siano, serve un’analisi ed una critica a chi continua a non vedere il problema, quasi come quel Berlusconi che non vedeva la crisi degli anni passati, perché affermava che ristoranti ed alberghi erano pieni.
Questo proprio no, oggi più che mai va analizzato il problema, la malattia per non far morire di cancro o di solitudine questa terra. Abbiamo messo indietro l’orologio da tempo e stiamo andando verso la metà del novecento, quel “prima del Terremoto dell’80”, dove chi era povero restava povero ed i ricchi comandavano.
La storia sembra aver detto questo e ve lo scrive uno che non l’ha vissuta, ma ne ha sentito parlare. Poi la tragedia che ha portato un gruzzoletto per qualcuno, un piccolo lavoro per altri, considerando il Boom Economico nazionale ed altro ancora. Era bello, semplice e divertente forse. Tutto avvolto da una magia, i piccoli comuni fiorivano e si parlava solo ed esclusivamente di normale amministrazione, da svolgere e da criticare soprattutto.
Chi deve impegnare il proprio tempo per la risoluzione del problema non è solo la politica, che usa le clientele per continuare a vivere, ma l’impegno va preso in maniera soggettiva, costruendo, inventando e non certo “fottendo” lo stato. La politica e le amministrazioni non possono essere giudicate solo se danno un posto di lavoro ad un singolo cittadino, ma devono innanzitutto creare le condizioni migliori per poter lavorare.
Nell’analisi soggettiva ci sta anche il fatto che il mondo del lavoro è cambiato oggi, l’investimento sul futuro è impraticabile a quanto pare e resta l’idea del posto fisso, prettamente riscontrabile solo ed esclusivamente al di sopra della capitale. Quel posto fisso all’italiana, decantato e raccontato da Checco Zalone nel film, campione di incassi: “Quo Vado?” è un po’ il senso della migrazione, quel miscuglio di ironia e bestemmie che attanaglia le giovani generazioni. La ricerca di quel tipo di posto, che è esigenza, ma anche noia o paranoia come potrebbero definirla gli amici di “Irpinia Paranoica”.
Ovviamente non condanno chi parte, perché potrebbe essere il futuro prossimo la partenza, ma ammiro chi resta e resiste. Lo fa anche non avendo niente, anche continuando a ripetersi ogni giorno che questo posto è destinato a non riprendersi, ma continua ad immaginare e prospettare. Proprio per queste persone, la festa del lavoro dovrebbe essere importante, perché non è solo il Concerto del Primo Maggio, ma la creazione di un diritto sacrosanto, una sorta di sentimento verso quello che è il futuro.
Chi scredita questa festa non ha capito un cazzo e potrà andare solo in una determinata direzione a cercare di costruire un futuro senza averci prima provato. L’esigenza è dovuta anche alle poche informazioni che circolano, tra gli enti, tra le giovani generazioni, tra chi non riconosce il sudore di una fronte, perché tanto arriverà qualcuno prima o poi a farci la proposta, magari in campagna elettorale soprattutto.
Se non si conosce, non ci si informa sulle dinamiche di investimenti, sulle dinamiche future di determinate amministrazioni, locali, regionali e nazionali, potremo continuare solo a sperare e basta. Bene quel posto fisso che ha portato e porterà la maggior parte di giovani irpini altrove è il colpevole, ma anche la nostra “ignoranza” lo è e continueremo a sbeffeggiare il prossimo come se stessimo fermi in un loop temporale. Un esempio potrebbe essere il passato, dove i giovani ancora una volta hanno permesso ai vecchi di interessarsi principalmente dei problemi che riguardano il futuro.
Che sia esso dovuto alle famose seggiovie, al turismo, a quella voglia di amare ancora un po’ il piccolo e non la metropoli. Questo è il problema: non abbiamo il senso di quello che abbiamo e le potenzialità che potrebbero farci creare lavoro. Se non c’è lavoro, aumenta la noia, i suicidi, il senso di abbandono, l’ignoranza, il consumo spicciolo ed insignificante. Restare prima di tutto, poi abbiamo sempre un bel trolley pronto in mansarda che ci aspetta impolverato, che forse, usiamo solo per le vacanze estive e per viaggi di piacere.
Arriverà quel tempo e lo possiamo anche accogliere, ma fino ad allora cerchiamo di darci da fare, proviamo almeno a far capire che questa è un’isola felice, a cui far riferimento sempre. Proviamo a vendere ciò che abbiamo, che sia il paesaggio, la cucina (innanzitutto), ma anche la creatività.
Tutto questo per non partire, ma restare e tu lettore lo vuoi o no il posto qui?
Giovanni Nigro
(da Fuori dalla Rete, Maggio 2019, anno XIII, n. 2)