Raffaele Angelo Patrone, il cui cognome fu corretto nel 1901 in Patroni con editto reale e su richiesta dello stesso artista conformandosi ad antichi documenti di famiglia, nacque a Bagnoli Irpino (Avellino) il 18 maggio 1853 da Antonio, “merciaro” in stoffe (Bagnoli Irpino 1821-Avellino 1860) e da Lucia Meloro, nata pure a Bagnoli Irpino nel 1833. Il piccolo Raffaele, alla tenera età di 7 anni rimase orfano di padre deceduto in seguito a malattia nell’ospedale di Avellino. Sua madre rimasta vedova a 27 anni decise di lasciare il paese natìo e andare a lavorare come cameriera a Salerno, affidando il suo bambino ai suoi genitori.
Antonio Meloro, padre di Lucia, era uno stimato scalpellino chiamato a lavorare da prelati e da privati committenti perfino nella vicina Basilicata, per l’esecuzione di lavori decorativi plastici completati da questi con rara raffinatezza, specialmente per l’esecuzione di portali di abitazioni e per capitelli per le chiese. Quindi, Raffaele trascorse alcuni anni della sua prima infanzia lontano da sua madre che, qualche anno dopo la vedovanza, si risposò a Salerno con un giovane operaio abruzzese che lavorava per le ferrovie dello Stato a Salerno, tale Angelo Alberico dal quale però non ebbe figli.
Un parroco di Bagnoli Irpino, amico di famiglia dei Meloro, si offrì gratuitamente di impartire al piccolo orfano le prime lezioni elementari del leggere e dello scrivere in lingua italiana e anche un po’ di matematica, l’essenziale. Il bambino, però, era fortemente attratto dal mestiere dello scalpellino che vedeva esercitare quotidianamente all’anziano nonno che impartì al nipotino qualche lezione di ornato disegnato e gli insegnò a “battere” la pietra con scalpelli e mazzetta. Fu così che, essendo stato commissionato al Meloro un importante lavoro per una chiesa di Melfi, questi si fece accompagnare dal piccolo Raffaele per essere da questi aiutato e avere compagnia. Nonno e nipote furono alloggiati a Melfi in una piccola abitazione al piano terra laddove la luce e l’aria entravano da un unico finestrino posto in alto in una parete della casa.
Dopo qualche mese i lavori nella chiesa melfitana erano stati quasi ultimati ma un mattino il piccolo Raffaele, svegliatosi, notò il nonno ancora addormentato, lo chiamò ma non avendo ricevuta risposta andò per destarlo ma lo trovò gelido ed immobile; infatti, durante la notte serenamente, forse per stanchezza, sicuramente per vecchiaia e senza neppure un lamento, il vecchio scalpellino aveva lasciato questo mondo e, ancora una volta, il piccolo Patroni si ritrovò solo. Il parroco della chiesa dove aveva lavorato il Meloro e le autorità cittadine provvidero alla sepoltura del vecchietto in Melfi, mentre i carabinieri condussero Raffaele a Salerno per farlo ricongiungere a sua madre e al secondo marito di quest’ultima. Lucia Meloro abitava in un piano rialzato di Palazzo Siniscalchi, nell’attuale Piazza Plebiscito nel centro storico di Salerno, non lontano dalla Cattedrale romanica.
Di temperamento insofferente, Raffaele, divenuto adolescente, sentiva la nostalgia del paese natìo e costringeva sua madre a mandarlo spesso a Bagnoli Irpino dalla nonna e dagli zii dove restava per alcuni giorni. La nonna materna, Caterina Rullo, alla fine di uno di questi soggiorni donò all’affettuoso nipote tutti gli attrezzi di lavoro appartenuti al marito e ciò accese in Raffaele ancor più il ricordo sempre vivo del nonno che gli aveva fatto da padre, ma soprattutto il desiderio di esprimersi anch’egli volendo fare unicamente lo stesso mestiere. Salerno, dopo il 1860, era rimasta trascurata, così come tante città del meridione d’Italia nel secolare sottosviluppo a causa dei sistemi di potere del nuovo Governo postunitario, ma in essa c’erano molti fermenti e la volontà di superare le beghe politiche tra partiti avversari per migliorarla con opere innovative che dessero decoro e dignità ai cittadini.
In quel periodo, dal 1870 in poi, fu realizzata la villa comunale, il Corso Vittorio Emanuele grazie al lungimirante Sindaco Matteo Luciani che fece dare inizio anche alla costruzione del Teatro comunale dedicato in seguito a Giuseppe Verdi, fiore all’occhiello della città in crescita. Intanto, erano iniziati anche i lavori di ripristino della Cattedrale e la ricostruzione del nuovo porto in sostituzione di quello vecchio che si era arenato e del nuovo Cimitero in località Brignano. In quel tempo di trasformazione ed espansione della città, si era trasferito da Napoli a Salerno un noto marmoraro, nativo di Carrara il cui cognome era Bergamini. Questi aprì un laboratorio di lavorazione di marmi di fronte all’ingresso del Cimitero a nord di Salerno nella zona di Fratte.
Lucia Meloro una mattina si presentò a questo noto artigiano per proporgli di assumere suo figlio, appena adolescente, in qualità di apprendista. Il Bergamini non accettò la proposta ritenendo il ragazzo inclinato sì al mestiere ma ancora troppo piccolo di età per dedicarsi all’attività difficile e delicata del marmoraro e le consigliò invece di farlo studiare alla scuola d’arte di Napoli anzichè mandarlo così presto a bottega. In quegli anni studiare era ancora un lusso che potevano permettersi solo i figli dei benestanti; la pubblica istruzione non era ancora consentita ai figli del popolo ritenuti dalla borghesia destinati solo all’apprendimento di mestieri. Lucia Meloro era una semplice inserviente e non aveva molte possibilità economiche, ma se anche le avesse avute, suo figlio, testardo e volitivo com’era, desiderava ottenere una sola cosa: scolpire la pietra come aveva visto fare fin dalla tenera età a suo nonno e nient’altro che questo.
Intanto, nella Cattedrale di Salerno doveva rifarsi un’adeguata pavimentazione caratterizzata da pregiati marmi bianchi e policromi. Per l’esecuzione di questi lavori di raffinati decori fu dato incarico ad uno dei noti maestri marmorari napoletani, tale Gennaro Coppola; allo stesso, successivamente, fu affidata anche l’esecuzione della pavimentazione del peristilio del Teatro Verdi a Salerno nonchè della balaustra delle scale che danno accesso ad esso. Il Coppola aveva ottenuto dal Sindaco Matteo Luciano in comodato i terranei del Teatro comunale e lì aveva creato il laboratorio per la lavorazione dei marmi occorrenti; ma per il deposito del materiale pregiato fatto venire dalla Toscana, il Coppola dovette fittare un altro locale piuttosto grande, nei pressi del porto di Salerno non lontano dal Teatro ancora non ultimato. Le notevoli spese a cui il marmoraro napoletano andò incontro costrinsero lo stesso a dover rinunciare alle costose maestranze fatte venire precedentemente da Napoli, e assumere invece a Salerno, come suoi aiutanti, giovani inclini a questo mestiere, ma da lui pagati miseramente. Tra questi apprendisti che collaborarono tra la metà degli anni Sessanta e fino al 1872 in tutti i lavori in marmo per il decoro interno del Teatro salernitano, fu ammesso a lavorare il più giovane tra questi: Raffaele Patroni. Il giovinetto che nella prima infanzia aveva appreso dal nonno Antonio Meloro l’arte dello scolpire pietra e marmi, rivelò subito al maestro marmoraro le sue capacità di precisione ed anche la sua sveltezza nell’esecuzione giornaliera dei lavori assegnatigli.
Tutto ciò provocò l’invidia dei compagni di bottega di lui più grandi di età ma meno capaci e meno preparati al mestiere da svolgere, per cui Raffaele iniziò a ricevere dai suoi compagni di lavoro angherie, provocazioni e perfino offese. Il Coppola, invece, non solo apprezzava il suo più giovane apprendista per le sorprendenti ed innate capacità, ma talvolta lo proteggeva dagli attacchi degli altri suoi aiutanti; si mostrò spesso generoso verso il giovinetto bagnolese aggiungendo, di tanto in tanto, alla sua paga settimanale qualche soldino in più. Ciò fu di incentivo e di incoraggiamento per il bravo apprendista Raffaele Patroni, stimolando in lui ancor più curiosità, desiderio di approfondimento dell’arte dello scolpire nonché la volontà di migliorare sempre sperando di diventare un artista.
Queste qualità del giovanissimo Raffaele furono così apprezzate dal Coppola che i lavori più delicati furono sempre affidati a lui divenuto ormai, in quegli anni di costante presenza in bottega, il braccio destro del maestro napoletano. Nella primavera del 1872 il Coppola rientrò a Napoli, essendo stati completati tutti i lavori anche di arredo interno del Teatro salernitano che per l’occasione fu inaugurato con l’opera lirica “Rigoletto” di Giuseppe Verdi, e Raffaele, divenuto nel frattempo diciannovenne, rimase senza occupazione. Lucia, perciò, incoraggiò il figlio a fittare un locale per la lavorazione di marmi nei pressi di Porta Rotese a Salerno, aiutandolo con grandi sacrifici economicamente per le prime spese a cui si andò incontro. Così il Patroni cominciò a lavorare in proprio avendo ben assimilato, in quegli anni di apprendistato, il mestiere di marmoraro e fu sempre grato a sua madre per quanto aveva fatto per lui, ma la sua grande aspirazione era rimasta quella di tentare il salto di qualità; infatti, consapevole delle proprie capacità e delle esperienze fatte con il maestro Coppola, intendeva abbandonare la lavorazione artigianale aspirando di scolpire il marmo per la realizzazione di ritratti, busti, e magari statue da collocarsi nella città in cui viveva e anche nella sua provincia.
Un giorno, però, un ex compagno di lavoro che aveva conosciuto ai tempi in cui aveva lavorato con il marmoraro partenopeo, venuto appositamente da Napoli a Salerno, si presentò al laboratorio del Patroni proponendogli di lasciare la sua città e di recarsi invece a Napoli, mettendosi in società con lui, riconoscendo a Raffaele la capacità innata particolarmente per la ritrattistica e prospettandogli di lavorare per la ricca borghesia, nelle ville di Posillipo e nei palazzi di Mergellina, potendo così eseguire opere monumentali in marmo a figura intera, soprattutto per l’importante cimitero della metropoli meridionale.
Fine Prima Parte
Dino Vincenzo Patroni
(da Fuori dalla Rete Dicembre 2023, anno XVII, n. 3)