Limitate sono le notizie sulle opere prodotte da questo scultore bagnolese, tuttora sufficienti per poter affermare essere stato un buon artista benchè non avesse mai frequentato scuole o istituti d’arte.” Così lo storico Sindaco di Bagnoli Irpino, Tommaso Aulisa (1921-1995) scrisse tracciando un profilo del mio bisnonno, ritenuto da storici dell’arte il capostipite di quattro generazioni di scultori tuttora operativi i quali si sono distinti con le loro opere prodotte in marmo, bronzo, ceramica e, con chi scrive, perfino con materiali industriali, cosiddetti “diversi” utilizzati nella personale ricerca per una scultura contemporanea ed innovativa.
Raffaele Patroni nacque a Bagnoli Irpino il 18 maggio 1853 da Antonio “merciaro in stoffe” e da Lucia Meloro figlia di un noto scalpellino bagnolese.
L’artista fu figlio unico e all’età di 5 anni rimase orfano del padre deceduto per malattia ancora molto giovane, presso l’Ospedale di Avellino. La madre, in seguito alla morte del marito, per vivere e cercare di dare un avvenire al suo orfanello si trasferì da Bagnoli a Salerno. Lì andò a servizio domestico presso famiglie di professionisti. Il figlio aveva dimostrato essere incline all’arte dello scolpire la pietra appresa già in tenera età dagli insegnamenti ricevuti da “mastu Meloro” suo nonno materno.
Dopo le scuole elementari Lucia Meloro affidò il suo ragazzetto alle dipendenze di noti marmorari napoletani venuti dalla “Capitale del Sud” a Salerno dopo il 1863 per eseguire opere di interni ed esterni di nascenti ed importanti costruzioni nella città che, in quel periodo, si risvegliava da un ingiusto letargo culturale, artistico, architettonico e mal vissuto nel periodo antecedente l’Unità d’Italia cioè sotto il regno dei Borboni. In quel periodo a Salerno fu costruito il nuovo Cimitero monumentale, la stazione ferroviaria, il Teatro Verdi finito nel 1869, la Villa Comunale nell’area urbana di largo Santa Teresa e tanto altro ancora; sindaco della città e protagonista di tutti questi eventi fu Matteo Luciani che da sempre apprezzò l’arte di Raffaele Patroni.
Fino al 1901 Raffaele firmò le sue opere con la “e” finale nel cognome, ma da questa data in poi il cognome venne cambiato con editto reale e su richiesta dell’artista in Patroni, con la “i” finale conformandosi ad antichi documenti di famiglia riscontrati presso l’Ufficio anagrafe del Municipio di Bagnoli Irpino ai tempi in cui era stato sindaco del paese il noto pittore Michele Lenzi il quale mostrò un sincero interesse per questo geniale giovane bagnolese artista autodidatta ma di notevole talento, emigrato a Salerno per circostanze avverse già nella sua prima infanzia e in conseguenza della prematura morte del padre. Intanto, Raffaele divenuto un uomo ed avendo appreso il mestiere di marmoraro prima, seguì invece la propria inclinazione che non era quella di un semplice artigiano di marmi policromi, bensì quello dell’arte del togliere cioè dello scolpire. Fare cioè statue, ritratti, monumenti. Quella era e fu la carriera d’artista che intraprese con coraggio e fiducia solo in se stesso, nella propria passione che gli derivava dal suo DNA e dalla breve frequentazione con suo nonno “mastu Meloro”.
Ben presto a Salerno, città in pieno sviluppo ed in crescita culturale ed artistica Raffaele divenne un affermato scultore in marmo nonostante non avesse mai frequentato, come tanti suoi famosi colleghi di mestiere, studi accademici. (Fu contemporaneo di Stanislao Lista, di Alfonso Balzico e di Vincenzo Gemito, solo per citarne alcuni del suo tempo e meglio affermati). La committenza pertanto, non gli mancò mai e permise al Patroni di formare, da giovane, famiglia sposando una ragazza della sua cittadina natale mai da lui dimenticata e nella quale aveva conosciuto Maria Luigia Conte dal cui loro matrimonio nacquero cinque figli: Diomede, Il primogenito, destinato a diventare un grande scultore italiano del ‘900 seguito da Antonio, da Angiolina, Lucia e Maria.
Delle opere del mio bisnonno di cui noi discendenti siamo al corrente, vanno citati in primis il busto ritratto eseguito per l’amico sindaco Matteo Luciani, scolpito in marmo bianco di Carrara e dopo la morte di quest’ultimo, cioè nel 1889. Lo storico dell’arte Rosa Carafa così scrive a proposito di quest’opera nel libro d’arte “OLTRE LONGHI”: ai confini dell’arte scritti per gli Ottantanni di Francesco Abbate: “…Qui l’artista coglie la pienezza fisica e psicologica dell’illustre personaggio, realizzando le superfici larghe del volto, contrassegnato dalla bordatura della barba a quelle del busto in modo leggermente più levigato, coniugando l’aspetto naturalistico e un recupero dell’impostazione ritrattistica classica, allo scopo di dare forza e imponenza al politico e all’uomo della svolta della nuova città, quella postunitaria.”
Ancora nel libro si parla di un busto ritratto, pure in marmo, (trafugato alcuni anni fa nel Palazzo Conforti a Salerno e non ancora ritrovato) dell’illustre giurista e patriota Raffaele Conforti, discendente dell’Abate Conforti, il quale era stato anche Ministro di Grazia e Giustizia sotto il regno di Vittorio Emanuele II e quello del noto archeologo Giustino Pecori.
Alla statuaria e alla ritrattistica del Patroni si affiancarono le committenze ecclesiastiche che con esecuzioni di fonti battesimali scolpiti in bassorilievo quali quello per esempio della Badia di S. Benedetto a Faiano di Pontecagnano (Salerno) ed il pregevole altare (riscoperto dopo il terremoto del 1980 dagli studiosi: Geremia Paraggio, Bruna Pallante ed Angelo Visconti che lo pubblicarono nel loro testo “Ai piedi dell’altare – la chiesa dell’ Annunziata di Castelluccio Cosentino”, edizioni Atelier Foto & Grafica, Eboli, 1997). Scolpite nel marmo sono narrate le storie della passione di Cristo di ispirazione neo-gotica (imposta all’artista sicuramente dalla committenza) e nelle cui formelle però si palesa interesse da parte dell’autore per la scultura romanica molto amata dall’artista già in giovane età. Va evidenziato in tutta l’opera di questa notevole tavola liturgica, le cui dimensioni sono altezza cm. 300 e larghezza cm. 360, il pannello in basso dell’altare nella cornice del paliotto; rappresenta l’interpretazione di Raffaele Patroni che s’impegna in un superbo alto e basso rilievo ispirandosi al “Cenacolo” di Leonardo da Vinci. Infatti, il saggista e storico Geremia Paraggio, a proposito di questo altare ideato e scolpito interamente dal Patroni, così scrive: “…Non è un’impresa da sottovalutare per le obiettive difficoltà connesse con l’operazione. Il risultato finale è ottimo ed il paliotto, nell’insieme, ha un suo fascino ed una preziosa nobiltà. Vi sono sproporzioni, personali interpretazioni nella definizione della grande sala che ospita l’evento, ma rimane l’espressione attonita degli apostoli e quel senso di stupore che caratterizza la “cena” leonardesca. Il Patroni ha “riscostruito” i piedi del Cristo improvvidamente tagliati per far luogo ad una porta, nell’affresco del Refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano. Sulla tovaglia in basso a destra è firmata R. Patroni. Nei particolari risulta la bellezza del volto di Cristo e, a destra, Matteo e Taddeo spiegano a Simone, sordo ciò che sta accadendo.
Non ultimo, su “il Saggio”, mensile di cultura, ottobre 2021 a pagina 3, in un articolo di Gerardo Chiumiento, “Aspettando le stelle”, l’autore così scrive a proposito della storia di Castelluccio Cosentino “…di grande bellezza sono i pannelli di marmo bianco dell’altare monumentale. Attribuiti all’artista Patroni raccontano le 14 stazioni della Via Crucis e sono un eccezionale episodio d’arte misconosciuta, e pure di grande e affascinante purezza, niente affatto localistica.”
Raffaele Patroni lavorò pure presso il Palazzo Ducale dei Mogrovejo in Cannalonga, nel Cilento. Ancora oggi nella piazza della cittadina è installata una fontana di gusto classico, mentre all’ingresso del palazzo ducale è visibile, seduto tra due imponenti leoni, il piccolo Turibio Mogrovejo, erede e continuatore del Casato dei Duchi di Cannaloga venuti in Italia dalla Spagna ai tempi di Alfonso d’Aragona.
E poi ancora va ricordato del Patroni il monumento funebre posto nel Cimitero di Roccadasopide di una sposa morta giovanissima, tale Franceschina Gorrasi Passaro in cui oltre alla indubbia somiglianza della scomparsa è evidente la bravura raggiunta dall’artista anche nella tecnica del traforo in marmo che caratterizza l’abito della sfortunata donna.
Il ritratto scolpito in pietra per il medico patriota di Teggiano Giovanni Matina è stato uno dei capolavori della ritrattistica dell’artista bagnolese. L’opera fu così ricordata da Monsignor Amabile Federico, storico dell’antica cittadina del Vallo di Diano nel libro da questi scritto “Grandi Dimenticati”, Cantelmi Tipografia Salerno, 1968. A pagina 63 il prelato così scrive a proposito di quest’opera scomparsa: “Sulla facciata centrale della demolita Casa Comunale fu, dall’Amministrazione del tempo, apposto un busto di Giovanni Matina con la seguente iscrizione, dettata da Giovanni Bovio:
A Giovanni Matina di Teggiano
che iniziato alla Giovane Italia
serbò fino alla morte
fede e propositi
prigioniero esule ferito
lottò ordì la insurrezione salernitano
sgombrando a Garibaldi la via
nel Parlamento nella proditattura
austero
morì incontaminato nel 23 maggio 1882
pago del dovere
Il busto e la lapide, nella costruzione del nuovo edificio, sono andati, purtroppo, perduti (qui tutto si perde!…).
Così Teggiano, suo paese natale, fa magnificamente coro con la generale e vergognosa dimenticanza, che avvolge la memoria di questo nostro illustre concittadino…”.
Rosa Carafa nel suo testo “Una dinastia di scultori del Mezzogiorno d’Italia tra il XIX ed il XX: I Patroni (Raffaele, Diomede e Corrado), così conclude a proposito del mio capostipite: “La produzione artistica di Raffale Patroni tra Otto e Novecento, palesando una profonda conoscenza della materia scultorea, si pone nella tradizione e nella varietà di genere e di gusto, adeguandosi ai nuovi linguaggi del modernismo con una continuità perseguita e tramandata attraverso l’operosità risoluta del figlio Diomede.”
Dino Vincenzo Patroni
(da Fuori dalla Rete, Gennaio 2022, anno XVI, n. 1)