Quanto qui è in più parti pubblicato è storia vera, scritta sicuramente alla fine dell’estate del 1913 da Maria Patroni, impiegata postale nata nel 1890 e deceduta nel 1963.
“Marietta”, l’autrice del manoscritto, così chiamata in famiglia, era una delle tre figlie dello scultore bagnolese Raffaele Patroni e ultima delle sorelle dell’ancor più noto artista Diomede, mio nonno, il quale come in molti sanno, pure nacque a Bagnoli Irpino il 28 giugno del 1880, in una abitazione in Largo S. Rocco dove oggi è invece la Scuola Secondaria di I° grado “M. Lenzi”.
Ho ritenuto proporre la lettura di questo episodio di vita dell’artista Raffaele Patroni e della sua famiglia per chi ama o è interessato a conoscere anche la storia umana vissuta da famiglie bagnolesi del secolo scorso che, emigrate al di là dei Monti Picentini, nella loro vita si sono fatti conoscere in Italia e all’estero per proprie capacità individuali, imprenditoriali, culturali, scientifiche o artistiche, come infatti lo è quella della dinastia degli scultori Patroni il cui capostipite fu Raffaele Patroni (1853-1925), come l’ha ricordato pure Tommaso Aulisa nel suo noto volume “Bagnoli Irpino antico e moderno attraverso le immagini (pag. 171-ed. Valsele Tipografica-1984)”.
Di questa famiglia di bagnolesi, emigrati a Salerno, oggi restano le tantissime opere eseguite in marmo, in bronzo, in terracotta, in pittura e perfino in ceramica; inoltre, una notevole gipsoteca e tanti documenti, ovvero fotografie di loro lavori realizzati perfino negli Stati Uniti d’America, onorificenze e dediche di illustri personalità del mondo dell’arte, della cultura e della politica e riconoscimenti che testimoniano la loro fervida, costante e prolifera attività artistica operata in ben tre secoli, dalla fine dell’Ottocento a tutto il Novecento e proseguita anche negli anni del Duemila da me quale interprete del mio tempo e nella tradizione di famiglia.
Ma la storia umana con tutte le sofferenze, le amarezze, le lotte per l’affermazione ed i contrasti ricevuti per la rivalità di altri scultori, ma anche le meritate soddisfazioni, apprezzamenti e onorificenze non sono tutte conosciute se non da me che ho raccolto il testimone e che mi furono raccontate e alcune perfino scritte da mio nonno Diomede, divenendone il depositario ufficiale.
Da subito si potrebbe pensare che siano storie di famiglia come tante e che trovano alloggio solo nei ricordi e nei sentimenti dei familiari discendenti a cui sono state dette, come si faceva una volta nelle buone famiglie. Ma quel momento particolare, attraversato dalla famiglia degli scultori Raffaele e Diomede Patroni e raccontato dalla figlia del capostipite, Maria, l’unica delle quattro donne rimasta in casa con loro dopo la morte della propria madre, viene da me proposto ai lettori ritenendolo utile testimonianza da cui si evince la sofferenza della famiglia di “Mastro Raffaele” che, per affermarsi nella scultura e per dare la possibilità di un avvenire migliore per quei tempi ai suoi 5 figli, spostò la sua attività artistica e la sua famiglia dall’amata e mai dimenticata Bagnoli Irpino a Salerno prima, poi per motivi di salute della propria moglie a Raito ed infine, definitivamente di nuovo a Salerno.
Tutto la vicenda raccontata nel manoscritto dall’autrice si concluderà diversamente da come si era prospettata ed i lettori alla fine capiranno il perché.
Quarantotto anni dopo essere stato scritto il racconto “Ricordi degli anni trascorsi a Raito” fu letto dall’importante scrittore e poeta Marino Moretti.
Moretti era l’autore del famoso romanzo “Il sole del sabato” che fu pubblicato per la prima volta su “Il giornale d’Italia” in più puntate fino al 31 luglio del 1913, prima ancora di essere proposto ad un più vasto pubblico di lettori dall’editore Treves.
Come in molti sappiamo, egli fu uno dei più noti letterati “crepuscolari”. Fraterno amico di Aldo Palazzeschi, Moretti ottenne in tutta la prima metà del Novecento e fino alla sua morte grandi successi; si spense nella sua Cesenatico nel 1979 all’età di 94 anni.
Qui di seguito è pubblicata anche la lettera che lo scrittore e poeta scrisse ed inviò da Firenze a Maria Patroni nella quale si conferma quanto Egli abbia ritenuto questo manoscritto interessante, seppure rimasto sinora inedito.
Nel proporre questa lettura, ringrazio mio cugino il noto musicista Maestro Guido Cataldo che, conoscendo la passione profusa nel custodire e nel tenere in vita l’archivio di famiglia della dinastia degli scultori Patroni, in attesa di far sorgere un’eventuale fondazione a loro dedicata, generosamente, con la fiducia e la stima in me riposta, mi ha donato recentemente questo testo in versione originale e scritto a mano dalla sua nonna materna: Maria Patroni.
Questo documento è una “tessera” aggiuntiva nella vita umana ed artistica di questa famiglia che visse d’arte e onorò l’Italia nel secolo scorso.
Si riporta la lettera che Marino Moretti scrisse da Firenze il 2 febbraio 1961 a Maria Patroni Marino
“Gentile Signora, non Le nascondo che il Suo racconto del “Soggiorno a Raito” mi ha fatto un’impressione profonda. Raramente ne avevo ricevuta un’altra simile in mezzo secolo di vita, ahimè, letteraria.
E’ una vera fortuna per me che il mio primo romanzo “Il sole del sabato” abbia corso una così bella avventura. Sarei lieto di mandarLe la mia copia dell’ultima edizione del romanzo, ma è anch’essa esaurita e non so quando essa potrà pubblicarsi di nuovo.
Ciò che ora Ella mi scrive mi spingerà quasi con accanimento ad affrettarne la ristampa, mostrando magari all’editore il Suo manoscritto. Il quale sarà custodito da me e da mia sorella come cosa preziosa. Vorrei dirle ancora molte cose, ma mi pare ch’Ella abbia capito tutto. La ringrazio e Le stringo con sincero affetto la mano. Suo Marino Moretti”.
- In cambio del “Il sole del sabato” Le invio un altro romanzo, scritto dopo, ma con lo spirito dello stesso paese.
Vincenzo Dino Patroni
Ricordi degli anni vissuti a Raito
(Parte prima)
Da Bagnoli Irpino la mia famiglia si era trasferita a Salerno dove vivemmo per alcuni anni, ma a causa della cagionevole salute di mia madre, ci stabilimmo qualche tempo dopo a Raito.
In questo borgo, frazione di Vietri sul Mare, che sorge alle pendici dei Monti Lattari là dove è costa di Amalfi, l’aria era molto fine perché contemporaneamente di mare e di montagna. Lì, mio padre aveva fittata una bella e grande casa in alta collina circondata da uno spazioso giardino pieno di piante ornamentali. In fondo ad esso avevamo un pergolato con fiori rampicanti e con al centro un tavolo tondo di marmo bianco. Intorno ad esso, come se fosse un divano circolare, era stato costruito un sedile in mattoni di terracotta e ricoperto da riggiole maiolicate e dipinte a mano, specialità questa delle fabbriche di ceramiche che hanno reso famosa Vietri sul Mare.
Tutte queste belle cose già le trovammo nella proprietà che una volta era stata di un possidente salernitano; il suo erede l’aveva concessa in fitto a papà.
Io ero la terza ed ultima figlia femmina a cui fu dato nome Maria, ma essendo la più piccola della famiglia ero chiamata in casa “Marietta”. Eravamo 5 figli, i primi due maschi, Diomede ed Antonio seguiti da Angiolina, da Lucia ed infine da me.
Mio padre, Raffaele Patroni, era nato a Bagnoli Irpino nella seconda metà dell’Ottocento ed era uno scultore in marmo, persona molto amata per la sua magnanimità, godeva di grande stima essendo un artista onesto sul lavoro, serio ed importante in Salerno e nella sua provincia.
Mia madre, Maria Luigia Conte di qualche anno più giovane di papà, pure era nata a Bagnoli Irpino, ridente paese dei Monti Picentini in provincia di Avellino e famosa per le grotte di Caliendo e per un lago che prende nome dall’Altopiano Laceno dov’è situato. Mamma era l’anima della famiglia e della casa, da sola pensava al necessario per noi figli e per il marito. Mio padre, invece, era l’unico che con il suo lavoro faceva vivere tutti noi dignitosamente.
Il mio fratello maggiore, Diomede, viveva quasi tutto l’anno lontano dalla famiglia, prima a Napoli quale valente studente di scultura all’Accademia di Belle Arti; poi a Roma dove frequentò pure l’Accademia di Francia perfezionandosi nel laboratorio del suo maestro l’insigne scultore Vincenzo Luigi Jerace; infine, dopo il servizio di leva militare nella capitale emigrò negli Stati Uniti d’America e per un paio d’anni insegnò perfino presso l’Istituto di Belle Arti di Chicago.
L’altro fratello, Antonio, invece, fu l’aiutante di mio padre ma volle partire ancor giovane definitivamente per gli Stati Uniti d’America dove lì visse per tutta la sua vita.
Angiolina, la maggiore delle mie sorelle, aiutava in casa la mamma la quale spesse volte era sofferente; Lucia, la seconda delle figlie femmine, era diventata una brava sartina e cuciva non solo per la famiglia ma anche per altre persone. Io avevo amato studiare e mi ero fatta onore nell’apprendimento soprattutto della lingua italiana, purtroppo però mi fu consentito di studiare fino alla terza classe complementare.
Mio padre era di un’incredibile sensibilità umana, generoso verso il prossimo fino all’esagerazione; ciò gli veniva contestato spesso dalla povera mamma che desiderava maggiore attenzione da parte di suo marito per le necessità domestiche specialmente di noi tre figlie femmine, ma anche per i miei due fratelli. Infatti, mi sovvengono un paio di episodi che rappresentano in me il ricordo perenne della figura paterna. Una volta il mio genitore aveva dato il suo anello in dono ad una povera madre, che gli aveva chiesto denaro per sfamare i propri figli, affinchè lo rivendesse per fare la spesa.
Una sera d’inverno in cui diluviava sentimmo bussare ripetutamente alla porta di casa e quando fui proprio io ad aprirla mi trovai di fronte mio padre che si presentava in famiglia senza né giacca né pantaloni ed anche bagnato. “Cosa è successo?” gli chiesi spaventata. Mi rispose “non preoccuparti, ho dato il mio abito ad un povero diavolo che era inzuppato dalla pioggia e non aveva come coprirsi, io ho altri abiti ancora, lui no.”
Il trasferimento dello studio di scultura e della nostra abitazione da Salerno a Raito, anche se a causa della fragile salute di mia madre, si era rivelata anni dopo la rovina di tutti noi, perché a Raito, proprio in quel borgo ameno, avvennero invece i fatti che determinarono la separazione di noi fratelli, avvenuta poco dopo la prematura morte di mamma.
Angiolina era già sposata; Antonio dopo i funerali ritornò in America e con sé portò anche mia sorella Lucia che in seguito conobbe e sposò a Chicago un italiano. Io rimasi unica donna della famiglia, sola con mio padre, che da vedovo cominciò e trascurarsi sulla salute e ad immalinconirsi, e con il primo fratello Diomede che, per non lasciarci soli, rinunciò a ritornare a Chicago dove già aveva avuto buon successo d’artista, decidendo di aiutare nostro padre nei lavori di scultura essendo divenuto un valente artista piuttosto conosciuto.
In seguito, non molto tempo dopo, infatti Diomede ripristinò il laboratorio di nostro padre ritornando tutti e tre a Salerno per abitarvi definitivamente. La committenza sarebbe stata, come di fatti avvenne, maggiore avendo mio padre in tempi migliori, già lasciato in città un nome apprezzato e ricordato.
Diomede non era solo un artista, amava studiare e leggere molto, ogni giorno comperava il suo quotidiano preferito, “Il Giornale d’Italia”.
Un giorno mi chiese di raccogliergli e conservargli, ritagliandoli dalle pagine di quel giornale, perché riportati a puntate, i capitoli di un romanzo per la prima volta pubblicato: “Il sole del sabato”. L’autore era un giovane scrittore italiano che si era già fatto notare dalla critica letteraria di quegli anni. Era Marino Moretti.
Con il rispetto e l’affetto che sempre ho nutrito per il maggiore dei miei fratelli, deponevo ogni volta in un cassetto di un mobile di casa, le pagine da me ritagliate per poi comporle tutte insieme ottenendo così l’intero libro da sottoporre alla lettura di Diomede. Mio fratello, contrariamente a me, amava leggere interamente un testo e mai a puntate.
Alla fine del mese di luglio del 1913, Diomede mi disse che le puntate del romanzo erano terminate e mi chiese quindi di raccoglierle progressivamente per incominciare a leggerlo. La mattina successiva mi alzai di buonora con l’idea di dedicarmi a questo impegno, ma con mia grande sorpresa, quando presi tutte le pagine per ordinarle mi accorsi che ne mancavano tre, esattamente le pagine 17, 31 e 41. Dopo aver ricontato tutte le puntate del romanzo da me accuratamente custodite, avvilita e quasi disperata iniziai a piangere non sapendo proprio come potevo dire dell’accaduto a mio fratello. Intanto, quella mattina anche il mio papà si era alzato molto presto perché con un suo aiutante di laboratorio doveva andare a consegnare e a collocare un importante lavoro finito da poco, tutto in marmi pregiati, che aveva eseguito in mesi di lavoro su committenza del parroco, nel Duomo di S. Andrea in Amalfi.
…. FINE PRIMA PARTE
Maria Patroni
(da Fuori dalla Rete, Maggio 2021, anno XV, n. 2)