L’Istat ha presentato la decima edizione del Rapporto BES, che misura e discute il livello di benessere degli italiani. Nel solco di autorevoli studi che partono dalla consapevolezza che il PIL non possa essere l’unica misura dello sviluppo di un paese, questo strumento misura il benessere attraverso un approccio multidimensionale, con 152 indicatori, articolati in dodici domini ((Salute; Istruzione e formazione; Lavoro e conciliazione dei tempi di vita; Benessere economico; Relazioni sociali; Politica e istituzioni; Sicurezza; Benessere soggettivo; Paesaggio e patrimonio culturale; Ambiente; Innovazione, ricerca e creatività; Qualità dei servizi) che offrono un quadro integrato dei principali fenomeni economici, sociali e ambientali che caratterizzano la vita degli italiani.
Lo scorso anno, nel commentare la precedente edizione del rapporto, ci eravamo soffermati sull’allarmante calo della partecipazione culturale e sullo sfilacciamento delle relazioni sociali, indubbiamente dovuti agli effetti del Covid, ma che testimoniavano anche che la ripresa era molto lenta e che, malgrado un certo ritorno alla normalità, gli italiani erano ancora rintanati in casa.
Quest’anno possiamo notare luci e ombre: ci sono più marcati segni di ripresa, anche se la loro dimensione non è tale da riportarci ai valori precedenti alla pandemia, ma gli effetti della guerra e della crisi climatica si fanno sentire, e cresce il divario tra le diverse aree della penisola e tra i vari ceti sociali, così come permangono gli squilibri di genere e tra giovani e adulti. I divari territoriali e sociali generano un circolo vizioso di scarse opportunità che riducono la possibilità di uno sviluppo equo e sostenibile nelle regioni e nei gruppi sociali più svantaggiati. Anche il confronto con gli altri Paesi dell’Unione Europea ci vede spesso in situazioni di forte ritardo e talvolta di regressione.
Concentrandoci in questa sede sugli ambiti per noi di maggiore interesse, possiamo notare qualche miglioramento nel campo dell’istruzione e della formazione: cresce, per esempio, la percentuale di bambini che frequenta la scuola dell’infanzia e migliora il dato dei NEET, i giovani che non studiano e non lavorano. Nel 2022 si rafforzano alcuni segnali positivi, come l’aumento delle persone di 25-64 con almeno il diploma che sono il 63,0% (erano 62,3% nel 2019), anche se siamo ancora lontani dalla media europea. Si torna a frequentare i luoghi della cultura: la quota di persone che hanno preso parte a due o più attività culturali fuori casa (23,1% nel 2022) e la percentuale di coloro che fruiscono delle biblioteche (10,2% nel 2022) tornano a crescere nel 2022, ma non riescono a tornare ai livelli del 2019. Particolarmente preoccupante l’indicatore sulla lettura di libri e quotidiani che presenta un continuo calo dal 2010: nel 2022 solo il 35,9% delle persone di 6 o più anni di età hanno letto almeno 4 libri all’anno e/o i quotidiani con una frequenza di 3 o più volte la settimana; la quota era del 36,6% nel 2021, del 38,0% nel 2019 e del 44,4% nel 2010, anno in cui è iniziato un declino che sembra inesorabile. In genere, facciamo fatica nel comparto dei servizi culturali: l’impatto della pandemia ha ridotto fortemente il budget dei Comuni per la cultura determinando, peraltro, un grave inasprimento delle disuguaglianze territoriali della spesa.
Bisogna anche sottolineare che nel dominio delle relazioni sociali ben cinque indicatori (soddisfazione per le relazioni familiari e amicali, partecipazione sociale, attività di volontariato, finanziamento delle associazioni) si trovano nel 2022 ancora su livelli inferiori a quelli rilevati nel 2019.
In definitiva, non possiamo accontentarci di alcuni segnali positivi: le ferite sono ben lontane dal rimarginarsi e le cure, forse perché insufficienti, sembrano non sortire gli effetti auspicabili.
di Giovanni Solimine- Presidente Fondazione Bellonci (Premio Strega)