La creatività è un aspetto unico nella vita di ognuno; creare qualcosa dal nulla, con consapevolezza o meno, ci rende unici tra gli esseri sul pianeta e molto probabilmente ha contribuito alla nostra evoluzione in quanto specie.
Ma quando la creatività diventa arte?
Questa domanda non trova risposta semplice.
Ciò che sappiamo, o meglio percepiamo, è quella vibrazione che ci fa sentire come posseduti quando creiamo, non sappiamo precisamente cosa sia ma sappiamo che c’è.
Credere nell’arte diventa così un atto di fede. Ma non possiamo definirci tutti artisti, come non possiamo definirci tutti Dio.
Eppure si sentono sempre più persone autodefinirsi “artisti”, reclamando con veemenza il proprio posto nell’olimpo e molto spesso lamentandosi di non ricevere la meritta attenzione, di non riuscire a vivere delle proprie creazioni, come se ciò fosse un privilegio dovuto.
Dato che non riusciamo a definire con certezza cosa sia l’arte, possiamo provare a riflettere su cosa voglia dire essere un artista o, per facilitarci il compito, su cosa un artista non è.
Il primo aspetto da considerare è questo: l’artista non è l’Arte.
Il suo ruolo è quello di veicolarla, non impersonificarla. studiare nelle scuole di arti figurative, musica, scrittura creativa o teatro non fa di nessuno un artista, né tanto meno cantare in cameretta caricando i video su YouTube, o uscire la domenica con la reflex al collo a fare foto un po’ come si va a funghi, né scrivere poesie sul cambio delle stagioni o sugli amori perduti. Così come non è arte ballare in una live performance dopo essersi inzuppati nell’acrilico colorato, suonare con una cover band in un locale, ma soprattutto – soprattutto – desiderare, per quanto fortemente, di essere un artista non farà necessariamente di nessuno un artista.
In una società post-spettacolare che continua a cullarci nell’illusione che chiunque possa essere in grado di contribuire in maniera significativa al patrimonio artistico, la presunzione di diventare i messaggeri del bello rischia di allontanarci dal vero senso liberatorio e spirituale dell’arte, proiettandoci in un autocompiacimento creativo alimentato soltanto da likes e condivisioni. I tanto agognati 15 minuti di celebrità di Warhol sono stati travolti dalla ricerca dei 15 mila followers, e forse egli stesso sarebbe impallidito dinanzi a tanta voracità mediatica.
Un’intera generazione di creators, tronfi di complimenti per il loro spirito creativo e incitati alla strada del successo artistico, si sono illusi di poter fare delle loro creazioni la loro vita e di poter vivere dei loro sogni. Prigionieri delle loro aspettative, svolgono il loro lavoro quotidiano in perenne agonia, vivendo come sotto una crudele dittatura, sempre più sprofondati nel ruolo di vittime, sognando il giorno in cui potranno finalmente riscattarsi e ricevere la giusta ricompensa per il loro estro creativo, o meglio, per il loro stesso essere. Una medaglia al valore. In perenne conflitto tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere.
Personalmente credo che la colpa risieda nella tendenza della società odierna a spingere verso un’esagerata valorizzazione della creatività del singolo, ingannandoci e convincendoci che essere ufficialmente riconosciuti “creativi” dagli altri e mettere in mostra le nostre creazioni ci dia una marcia in più e ci faccia salire di importanza nella scala sociale e social. Ma in quanto esseri umani siamo tutti creativi, in un modo o nell’altro; la biologia è dalla nostra parte, e del resto anche certi animali lo sono. Creare arte è tuttavia un’altra cosa, una cosa che non si può progettare a tavolino.
Oramai il creare è diventato più importante del saper vedere o ascoltare, l’opera è diventata mero “prodotto” e come ogni prodotto consumata con ingordigia. Sui social e sulla rete rischiamo di disimparare a sentire quella vibrazione sottopelle che ci faceva distinguere un Caravaggio da un semplice bel quadro. Siamo più interessati a produrre e a farci spazio nel magma di immagini e suoni, che a percepire. Le nuove leve di creativi sembrano troppo proiettate verso la produzione in serie di elementi decorativi e consumabili considerati “carini”, così da poter alimentare la loro sicurezza e il loro autoproclamato status di artisti. O, come risposta opposta e altrettanto vacua, troviamo ancora centinaia di opere estremamente cerebrali che rifiutano la ricerca estetica, ma nascondono la presunzione di aver capito il mondo e volerlo spiegare, spesso totalmente impenetrabili a chi non ha studiato storia dell’arte, così da creare un ulteriore livello di distacco tra gli artisti e “gli altri”.
Detto questo, esprimersi è fondamentale per l’essere umano ed è bellissimo condividere ciò che creiamo con altre persone, ma sarebbe bello tornare a farlo per il solo piacere di farlo e non per un fine che nasconde il desiderio di essere riconosciuti come speciali. Siamo tutti speciali e quindi nessuno lo è, ma non possiamo stare tutti sul palco, non tutti contemporaneamente almeno. Smettiamola di considerarci artisti solo perché creiamo cose, siamo umani e siamo tutti creativi e, a volte, se gli astri sono dalla nostra, può capitare che dalle nostre mani, bocca, piedi, esca fuori qualcosa che si stacca da noi e diventa Arte; e ce ne accorgeremo perché vivrà di vita propria e non avrà più bisogno di noi, non avrà bisogno di essere alimentata dal nostro ego per esistere.
di Martin Di Lucia
(da Fuori dalla Rete, Maggio 2019, anno XIII, n. 2)