Per non farla lunga: nel 1993, in Italia, sfruttando l’onda lunga di Tangentopoli e la conseguente sfiducia nei politici, nacque il partito del leader. Berlusconi fece scuola. Oggi in tutto o quasi il mondo democratico questo sistema si è imposto. La politica è leaderismo, con buona pace di chi, come me, ha vissuto in un’altra era: quella in cui le decisioni si assumevano dopo lunghe (a volte estenuanti) discussioni; in cui i partiti erano luogo di confronto serio e formativo, di crescita individuale e collettiva.
I partiti, in effetti, erano degenerati in sistemi di gestione del potere; avevano, come diceva Berlinguer nel 1981, “occupato lo Stato”.
Così, allora, grazie a Tangentopoli, ci illudemmo di aver buttato via l’acqua sporca (perché il malaffare non è mai scomparso), ma nei fatti buttammo via solo il bambino. Infatti i partiti non esistono più e il leaderismo si è affermato in maniera assoluta. Comanda il leader e lui solo. Il partito non è più rappresentato dalle sue idee, ma dal suo capo.
Risultato: oggi chi fa politica attiva non usa quasi più la parola “noi”, ma solo e soltanto la parola “io”. A tutti i livelli (e non solo in politica…). Tanti protagonisti politici, o presunti tali, raccontano la storia degli ultimi anni o decenni, nazionale o locale, mettendo sempre e solo se stessi al centro di ogni scelta, di ogni svolta, di ogni decisione. Persone che se non vedono realizzate le loro aspirazioni, o se non concretizzano i propri obiettivi e interessi, non sono disposti a mettersi in gioco o, peggio ancora, passano dall’altra parte.
La passione politica o civile è sparita, soppiantata dagli interessi personali, professionali o di parte. Ora: le idee sono capaci di smuovere interi popoli; gli interessi fanno muovere soltanto qualche scagnozzo. Per questo Totò, che quasi settant’anni fa urlava “Poi dice che uno si butta a sinistra!”, probabilmente oggi direbbe: “Poi dice che uno si butta… sul divano!”
Luciano Arciuolo