Le fratture della società. tra disoccupazione e astensionismo. Le nuove generazioni hanno perso centralità socioeconomica e politico-culturale.
Non c’è mai stata una lucida politica generazionale in questo Paese. Oggi il divario tra giovani e anziani – in apparenza un cleavage sociale inoffensivo, senza spigoli conflittuali – raggruppa molte tessere della nostra vita socioeconomica e civica. La disoccupazione giovanile è, in percentuale, quasi sette volte quella degli over 55. La disuguaglianza economica tra vecchi insider e giovani outsider è aumentata vertiginosamente dal 2000. Il sistema educativo galleggia appena, tra ritardi e bassi investimenti. Soprattutto, oggi aleggia una certa incomprensione tra padri e figli, quasi avessero perimetri mentali diversi e non parlassero la stessa lingua: ciò che è povero di senso per gli uni è vitale per gli altri e viceversa.
I giovani sono immersi nella comunicazione tecnologica, hanno versatilità mentale multitasking, indossano competenze medie più elevate delle generazioni passate. Potenzialmente sono un sistema passante di accelerazione dello sviluppo e dell’innovazione a cui stiamo rinunciando, non senza danno sociale ed economico (14 miliardi l’anno, CsC 2017). Sta diventando complesso tenere in pugno l’intera faccenda giovanile, al pari di quella meridionale con la quale s’intreccia. Un tallone d’Achille per il Paese. Quest’allergia ai giovani è il frutto amaro di una visione cinica del bene comune che sta desertificando di senso il futuro del nostro Paese. Che tipo di cultura del lavoro stiamo trasmettendo ai nostri giovani senza lavoro? E che sistema educativo stiamo configurando se ben un quarto di essi si arresta alla licenza media?
Marginalizzati dal sistema, i giovani tendono a starne fuori e a sperimentare libertà nomadi in second life. Altri scelgono di cambiar aria, capeggiando la diaspora all’estero. Pensano che la politica li ignori per leggerezza elitaria o per miseria intellettuale e, senza dubbio, per un calcolo spigoloso che premia lavoratori adulti e pensionati. Dall’altro canto, i politici pensano, senza troppi segreti, che occuparsi dei giovani non sia conveniente, perché sanno che gli anziani (ex baby boomer) sono più numerosi dei millenial e della generazione X e, soprattutto, sono più assidui alle urne elettorali. I ragazzi di oggi semmai propendono per un voto di protesta o per l’astensione, chiamandosi fuori, un po’ per sofferenza, un po’ per gioco provocatorio. Anzi, sono i maggiori fautori dell’astensionismo d’opinione e intermittente (si veda Il Sole del 27 giugno 2017), più di quanto siano un serbatoio di voti per il M5S. Quello al movimento di Grillo e Casaleggio è un voto di protesta dimezzato, quasi spuntato: solo 1/3 dei giovani elettori grillini assegna la sufficienza al M5S (Fondazione Toniolo 2017). Sono perciò insoddisfatti della politica che certo non li corteggia con misure concrete. Solo una minoranza sceglie un partito e lo fa come se fosse un marchio commerciale, un’etichetta a cui non si deve né senso di appartenenza né partecipazione.
I giovani hanno perso centralità socioeconomica e politico-culturale ed è forse questo uno dei motivi principali per cui il Paese ha smarrito in questi anni dinamicità. È anche la ragione banale per cui nei musei, nei cinema, in treno o in metro sconti e facilitazioni per i più anziani sono generalizzati, mentre per i giovani sono occasionali e somministrati con il contagocce. A preoccupare non ci sono solo sistema educativo e disoccupazione giovanile. Stiamo anche crescendo una generazione di astensionisti come se la politica, dopo l’eclissi delle ideologie, in prospettiva dovesse subire un nuovo rovescio, scomparendo dal software culturale e civico delle generazioni future. Più la politica ignora i giovani e più si delegittima in una prospettiva futura. Equivale a darsi la zappa sui piedi. Del resto, oltre-Manica si sono accorti in modo clamoroso di quanto sia pesante il divario generazionale: Brexit è stata sostenuta dalle generazioni più anziane e apertamente osteggiata dai giovani di un Regno sempre meno Unito. In qualche Paese europeo si pensa di abbassare a 16 anni l’età del voto per aumentare il peso dei giovani sul corpo elettorale.
Tuttavia, fenomeni di esclusione sociale così macroscopici non si risolvono con “pannicelli caldi”, con politiche e risorse residuali (dopo le cose importanti). La politica deve mettersi in ascolto, dimostrare non solo capacità di interpretare i cambiamenti del XXI secolo, ma anche cercare di influenzarne gli esiti con terapie efficaci. La stabilità macroeconomica è sacrosanta, ma lo stanziamento per i giovani di cui si parla, dopo le promesse importanti al G7 di Torino, equivale a piantare una bandierina, in continuità con la debolezza di una politica che, distratta dal calcolo del consenso, non riconosce nelle nuove generazioni il bene comune prioritario.