Nel 18° secolo, quando gli esseri umani sul pianeta erano 700 milioni, l’uomo iniziò ad interrogarsi su quante persone avrebbe potuto ospitare la Terra. Il progresso tecnologico e il miglioramento della qualità della vita diedero forte impulso alla crescita demografica a partire dal secolo successivo, per giungere, alla fine del ‘900, a quasi 7 miliardi di abitanti.
Secondo l’economista e filosofo Robert Malthus, tra i maggiori studiosi di teorie legate al tema del sovrappopolamento, noi umani avremmo rischiato l’estinzione di specie per la ovvia carenza di risorse, dovuta, neanche a dirlo, alla crescita esponenziale della popolazione cui si stava assistendo. Ma l’etologo John Calhoun, studioso delle abitudini e dei costumi degli animali e dell’adattamento delle piante all’ambiente, nella seconda metà del ‘900, condusse esperimenti atti a dimostrare come non fossero le risorse limitate il pericolo maggiore per la società, ma le sue dinamiche sociali, che definì come fogna del comportamento. Egli giunse a questa conclusione dopo decenni di esperimenti sui topi. Nel 1947 Calhoun iniziò a studiare una colonia di topi in un recinto, osservando come la popolazione non raggiungesse mai il numero previsto. Incuriosito da quel halt demografico, trascorse i successivi anni ad indagare i meccanismi di quel blocco di nascite. Per arrivare a comprendere scientificamente ogni passaggio dello studio ricreò una vera e propria società di topi nella forma di un’utopia perfetta. Costruì un habitat ideale per quattro coppie di topi, rifornendole di risorse alimentari illimitate, temperatura ideale, schermatura dai pericoli esterni, pulizia frequente dell’ambiente e spazio sufficiente per ospitare fino a 3.800 topi. Scelse esemplari forti e sani inserendoli in un recinto con cunicoli, zone separate per la nidificazione e riserve d’acqua corrente pulita. Come previsto, i topi iniziarono a riprodursi e la popolazione raddoppiava ogni 55 giorni, arrivando a 600 esemplari in meno di un anno. Un vero e proprio Eden chiamato Universo 25. Una volta raggiunto un vasto numero di esemplari, subentrò quello che sarebbe divenuto il problema chiave: la distribuzione dei ruoli sociali. Non avvenne, come ci si aspettava, un ricambio generazionale, ma si instaurò una struttura gerarchica in cui ciascun topo tendeva a difendere il proprio status.
«Gli animali si affollavano insieme in gran numero in uno dei quattro nidi di interconnessione sui quali era tenuta la colonia. I ratti singoli raramente avrebbero mangiato se non in compagnia di altri ratti. Come risultato, il nido scelto per mangiare aveva una densità di popolazione estrema, lasciando gli altri tre quasi vuoti.»
Le femmine iniziarono a nascondersi nei giacigli più alti, per non essere raggiunte dai maschi e proteggere la prole, finendo col frenare drasticamente la riproduzione. Ciò però non bastò a fronteggiare l’aggressività dei “maschi alfa”, che portò la mortalità dei cuccioli al 96% dei casi.
«Molti esemplari femmine non erano in grado di portare avanti una gravidanza sino al termine, o di sopravvivere al parto se fossero giunte alla fine. Un numero anche maggiore, dopo essere riuscite a partorire, venne meno alle proprie funzioni materne.»
La violenza si pose alla base delle interazioni sociali; il mantenimento di un ruolo di rilievo all’interno della gerarchia e la prevaricazione divennero elementi fondanti per non finire ai margini della società. «Tra i soggetti maschi, le distorsioni comportamentali variarono dal cannibalismo all’iperattività frenetica».
Chi si isolava dal gruppo, rinunciando a combattere, rientrava tra gli esemplari che Calhoun definì come “belli”, dato che il loro pelo non era lacerato dai combattimenti e l’alienazione li aveva preservati dalle ferite. I “belli” si auto ponevano ai margini della società, trascorrendo le giornate a nutrirsi in solitudine. «…all’emergere di un isolamento patologico, a causa del quale gli individui isolati uscivano per mangiare, dormire e muoversi solo quando tutti gli altri membri della comunità stavano dormendo.»
Il numero di roditori non raggiunse mai i 3.800 ipotizzati dallo studioso, ma si fermò intorno ai 2.200. A partire dal 600esimo giorno il numero iniziò a calare drasticamente. Le gravidanze continuarono a diminuire e, nonostante tutti i confort e le risorse illimitate a disposizione, la società dell’Universo 25 infine collassò, giungendo all’estinzione per l’incapacità dei propri membri di mantenere un equilibrio sociale. Calhoun definì la morte sociale come la “prima morte”, che precedeva la seconda: quella fisica. L’ultimo topo morì cinque a anni dall’inizio dell’esperimento. Nella tesi a conclusione del suo esperimento scrisse: “Non importa quanto sofisticato l’uomo creda di essere diventato, una volta che il numero di individui in grado di ricoprire un ruolo sociale supera largamente il numero di ruoli disponibili, la conseguenza è la distruzione dell’organizzazione sociale”.
Le risorse illimitate sono dunque da considerarsi l’aggravante maggiore nella genesi delle lotte interne, in quanto basate sull’interazione sociale fine a sé stessa e non al fine della sopravvivenza.
A mezzo secolo di distanza, l’Universo 25 richiama per certi aspetti il mondo in cui viviamo. La lotta per un posto nella società si è inasprita con la diminuzione dei ruoli da occupare, come dimostrano i tassi di disoccupazione giovanile in molti Paesi del mondo sviluppato. Anche l’illusione delle risorse illimitate, che per anni ha caratterizzato le nazioni industrializzate, non garantisce alcun sollievo ai suoi abitanti, ma alimenta in molti l’istinto di prevaricazione sui propri simili. E, anche in questo caso, si arriva all’isolamento. I “belli” di Calhoun che rinunciano alla società, ponendovisi volontariamente ai margini; possono essere equiparati ai waldgänger del filosofo tedesco Ernst Jünger, che si ritirano nella foresta, o agli hikikomori giapponesi. Si isolano, abbandonano le interazioni sociali, per difesa o per necessità, e non perché spinti da angustie economiche o carenze di risorse. I Paesi tecnologicamente più avanzati e con più risorse sono anche quelli con il più alto tasso di suicidi. Il continente con il Pil pro capite più basso, l’Africa, è quello con il tasso di suicidi più basso, mentre l’Europa è al primo posto, trainata dai Paesi scandinavi, proprio quelli che ogni anno stazionano nelle prime posizioni dei World Happiness Report dell’Onu. Oggi viviamo all’interno di quello che pare proprio essere un Universo 25: quello della pandemia. L’isolamento forzato ha messo in luce lo stesso istinto a ergersi al di sopra degli altri, con gli ultimi che combattono i penultimi (consiglio al riguardo la visione del film premio Oscar “Parasite” di Bong Joon-ho), aizzati da chi sta in cima alla gerarchia sociale. Da virus-contro-uomo si è passati all’uomo-contro-uomo, e questo non è avvenuto nel momento di massima difficoltà del primo lockdown, ma quando sono arrivati i vaccini: la letalità è calata, le varianti sono diventate meno aggressive e si è tornati così ad una competizione sociale con tinte da guerra civile; tra discriminazioni, vittimismo e prevaricazione. Per Calhoun noi esseri umani (ma a quanto pare non solo gli esseri umani) abbiamo nel Dna il gene della “prima morte”, quella sociale. Ne siamo attratti, la cerchiamo inconsciamente. Spesso la raggiungiamo, quasi sempre senza accorgercene.
Martin Di Lucia
(da Fuori dalla Rete, Marzo 2022, anno XVI, n. 2)