Sono le 22 e 10 di martedì 25 novembre; sto accampato, vicino ad un fuoco, nella campagna di Bagnoli Irpino, un paese della provincia di Avellino risparmiato chissà come dal terremoto: le case sono lesionate, c’è stato qualche crollo, ma non ci sono vittime. Sono nato qui, ma da qualche anno vivo a Mestre, sono consigliere comunale comunista a Venezia. Dalla televisione, nella tarda serata di domenica, so di un terremoto in Basilicata con epicentro a dieci chilometri ad est di Eboli: la cartina presentata in TV contiene – all’interno del primo cerchio dell’epicentro – Bagnoli, il paese dove vivono i miei, genitori.
Decido di partire: non so cosa troverò, vado alla ricerca. Mi accordo con mio fratello che vive a Varese, e convergiamo su Firenze. Di lì, nella nebbia, andiamo verso sud. È la sera quando arriviamo ad Avellino; usciamo dall’autostrada; percorriamo Atripalda e i paesini lungo l’Appia. Non c’è anima viva per le strade; la gente è accampata intorno ai fuochi; non c’è polizia né carabinieri; ho paura di strade dissestate, ponti crollati, frane. Ad Atripalda si incontra un poliziotto spaurito e infreddolito; ci dice che non sa se le strade siano percorribili, ignora se ci siano morti, ci augura buona fortuna.
Per 50 chilometri lo stesso spettacolo: silenzio, fuochi; gente attonita e severa, nessuna pattuglia, il traffico assente, case diroccate qua e là. Sono passate trentasei-quaranta ore dal terremoto. Prima domanda: dove sono le autorità provinciali? Come e cosa hanno provveduto? Da Avellino, lungo quattro direttrici, si può raggiungere abbastanza facilmente l’interno: Avellino-Salerno; l’Appia che, tagliando proprio le zone disastrate, porta a Potenza; l’Ofantina che costeggia Torella, S. Angelo, Lioni, Calitri; la strada che per Ariano porta a Foggia. Staffette in perlustrazione avrebbero potuto, dare in poche ore, dopo il disastro, l’esatta cognizione della situazione dei paesi alle autorità civili; militari e politiche di Avellino: i soccorsi si sarebbero indirizzati verso il centro delle devastazioni, centinaia di persone si sarebbero salvate.
Arriviamo a Bagnoli a tarda sera senza alcuno ostacolo, se non una nebbia fittissima. Tremila persone sono fuori delle case, in un freddo polare, in ripari di fortuna. La mattina successiva, alle 7, si va a Lioni; sono passate più di 36 ore dalla prima micidiale scossa. Lo spettacolo visto in Tv, il paese che non esiste più, raso al suolo. I superstiti guardano quello che resta delle case, tentano di scavare con le mani, con qualche piccone. Si sentono grida da sotto, invocazioni qua e là. Pochi soldati in giro, pochi vigili, due o tre scavatrici, in un paese che contava 5-6 mila abitanti e che per metà è sotto le rovine. Palazzi di quattro piani ridotti a un metro-due metri di polvere e calcinacci. Su un montarozzo di pietre, quello che resta di un palazzo con dodici appartamenti, un vigile lancia un cane lupo addestrato per fiutare la presenza di corpi sotto le macerie; il cane ulula frenetico, si tenta di scavare con vanghe, picconi, mani. Di tanto in tanto ci sono scosse, anche forti, ma che non impensieriscono più di tanto, mi sembra, quelli che cercano. Si comincia a sentire odore di putrefazione, in qualche posto particolarmente.
Sono le 11 di martedì 25 novembre; dove sono gru, escavatori, autoscale, ecosonde, tutta quell’attrezzatura indispensabile in tali occasioni? Non dovevano essere previste, preparate e pronte per l’evenienza in una zona sismica come l’Irpinia che in cinquanta anni ha avuto tre terremoti, due dei quali con migliaia di morti?
Ora è notte, c’è una ridda di voci e di pensieri, scrivo su un cartone queste, poche frasi, la gente intorno è silenziosa, prima qualcuno rideva sommesso. Ma continuo a chiedermi, ed è la seconda domanda: il viaggio che abbiamo fatto, dal nord verso l’Irpinia, alla ricerca di genitori, parenti, – compagni, non lo potevano fare, in minor tempo e con preziosa efficacia, i comandanti militari di Avellino e Napoli, prefetti e funzionari, tutti coloro che erano preposti per ufficio al compito di prevenire, intervenire, soccorrere in casi di calamità naturali? I consigli comunali sono stati l’unico punto di riferimento per la gente; a fatica, fra difficoltà inenarrabili, le amministrazioni — o meglio quello che è restato — sono riuscite a coordinare il coraggio e l’energia delle popolazioni, dei giovani soprattutto; è lo dico senza settarismo alcuno, i compagni comunisti sono stati tra i primi al lavoro, insieme agli altri.
Ho visto a Lioni monaci cappuccini prodigarsi e lavorare fino al limite delle forze. I militari, i vigili hanno lavorato con sacrificio e un impegno senza limiti, mancavano però le attrezzature indispensabili. Un invito vorrei rivolgere alla stampa di registrare le tante storie individuali delle migliaia di protagonisti: la lettura di queste esperienze di vita vissuta darebbe la possibilità di scrivere una denuncia implacabile di tutto quello che poteva essere fatto e, colpevolmente, non è stato fatto.
Gennaro Cucciniello – L’Unità 28.11.1980