Anarchismo & xenofobia. La storia di Sacco, Vanzetti ….e del bagnolese Tattá
di Antonio Cella
Socio fondatore e militante illuminato, Antonio Cella è il decano del Circolo Pt39. Nei giorni del suo 83esimo compleanno (a proposito, auguri vivissimi da tutti noi) ci ha voluto “regalare” l’ennesima chicca, un articolo di approfondimento storico, il processo sommario e la condanna a morte negli USA, quasi un secolo fa, di due immigrati italiani, Sacco e Vanzetti. Vicenda che si lega e interseca poi con la storia di un arcigno personaggio bagnolese dell’epoca, tal Aniello Di Capua detto Tattá. Buona lettura.
Non credo proprio che possa rientrare nella scia degli anacronismi rivisitare, oggi, a distanza di quasi cent’anni dalla loro morte, la sintesi storica delle vicissitudini vissute dagli anarchici Sacco e Vanzetti e della loro esecuzione capitale di condanna a morte sulla sedia elettrica, avvenuta il 27 agosto 1927 per mano di giudici e giuria xenofoba, la cui sentenza, noncurante delle imponenti manifestazioni di protesta avvenute in tutto il mondo e la testimonianza giurata e provata di estraneità degli stessi verso l’accusa di rapina e di omicidio, (nata sulla base di una montatura architettata a regola d’arte, che sconvolse anche buona parte dell’opinione pubblica internazionale) fu regolarmente eseguita, come si evince da un articolo del giornale “Labor Defender” che scrisse: ”Con questo assassinio la classe dominante d’America mostra al mondo il suo vero volto”. Il motivo per cui si rievocano i fatti, va ascritto alla partecipazione e all’arresto di un figlio di Bagnoli alla dimostrazione di protesta nella città di Chicago di cui, a seguire, parleremo in modo più dettagliato.
La storia, è la Storia: non trattiene per sé le notizie e i fatti che le arrivano dal mondo. È come l’inquinamento nucleare di Cernobyl, che dopo centinaia d’anni rimane sempre vivo e fatale. La storia è verità, con i suoi valori e i suoi costi. Nasce dal sofferto cammino dell’uomo, a far data dagli albori della vita umana.
“Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti!” È il proclama del 23 agosto 1977 con cui il Governatore pro tempore dello Stato di Massachusetts, Michael Dukakis, assolveva i due anarchici italiani dal crimine loro attribuito. Riabilitazione, avvenuta cinquant’anni dopo la loro esecuzione sulla sedia elettrica. Erano stati barbaramente assassinati non solo perché anarchici e sovversivi ma soprattutto perché immigrati italiani definiti “dagos”, cioè reietti ed emarginati. Assassinio che viene letto come segnale di dominio che il capitalismo americano vantava sul vecchio capitalismo europeo, nel momento in cui l’egemonia economica stava passando decisamente nelle mani di Wall Street. Una esecuzione rivolta al mondo e soprattutto all’Europa:
“Non ti temo!. Non credere di irretire e divagare i miei giudici con ricorsi assiomatici, con plebisciti numerosissimi, con comizi e con cortei grandiosi. È l’American Legion, è il Ku Klux Kan che contano e non i vostri comitati, È il volere dei banchieri, degli industriali e dei commercianti che conta, e non le chiacchiere dei letterati, dei filosofi, degli scienziati”.
Con loro, con gli americani, c’era l’appoggio della totalità della stampa, non solo statunitense. La “ Deutsche Zeitung” di Berlino, conservatrice, a giustificazione di quanto voluto dai giudici, ambiguamente scriveva: “Se i giudici avessero ceduto, la strada sarebbe divenuta il potere supremo”. La morte degli eroici migranti italiani veniva, così, etichettata come una mera sconfitta proletaria.
La vittoria dei giudici era legata sia al terrore scatenato contro i “rossi”, sia al feroce razzismo contro gli italiani, di cui ancora serpeggia una edulcorata forma dello stesso, che venivano equiparati agli esseri primitivi, violenti e addirittura criminali. Si trattava di un periodo della storia statunitense caratterizzato da un’intensa paura dei comunisti (la paura rossa del 1917-1920). Né Sacco nè Vanzetti si consideravano comunisti; e Vanzetti non aveva nemmeno precedenti con la giustizia. Entrambi, tuttavia, erano schedati dalle autorità locali come militanti radicali coinvolti in scioperi, agitazioni politiche e propaganda contro la guerra. Erano, soltanto, abili organizzatori appartenenti ad un sindacato di classe che non era contrario alla difesa dei nuovi immigrati provenienti dal Mediterraneo e dai paesi dell’Est, come succede ora in Italia, di cui gli americani temevano la radicalità e l’influenza degli ideali libertari. I Nostri, avevano un’aspirazione ideale e di internazionalismo, che plaudiva all’unificazione delle lotte dei lavoratori di ogni origine e colore, ed erano fortemente contrari alle intermediazioni burocratiche.
Nicola Sacco, foggiano, ciabattino di mestiere, lavorava in una fabbrica di scarpe e viveva in un sobborgo di Boston. Era solito adoperarsi nella raccolta di fondi finanziari per gli scioperanti che, in quanto tali, non percepivano denaro, e per la difesa dei sindacalisti arrestati. Spesso, anche lui, veniva arrestato durante le manifestazioni di solidarietà con gli operai del Minnesota durante le quali interveniva con la sua oratoria. Commovente è la sua lettera tratta dall’epistolario rivolta al figlio Dante:
“Ricordati sempre, Dante, della felicità dei giochi, non usarla tutta per te, ma conservane solo una parte (…) aiuta i deboli che gridano per avere un aiuto, aiuta i perseguitati e le vittime, perché questi sono i tuoi migliori amici; son tutti compagni che combattono e cadono come tuo padre e Bartolo, che ieri combatté e cadde per la conquista della gioia e della libertà per tutti e per i poveri lavoratori. Sì, figlio mio, essi potranno ben crocifiggere i nostri corpi coma già fanno da sette anni, ma non potranno mai distruggere le nostre idee che rimarranno ancora più belle per le future generazioni a venire.”
Bartolomeo Vanzetti, invece, lavorava in una fabbrica di cordami di Plymont nei pressi di Boston. La sua lotta era rivolta al miglioramento delle condizioni di lavoro. Era seguito da circa quattromila operai, capaci di paralizzare le industrie. Era, quindi, un individuo scomodo, da monitorare e controllare costantemente. Spesso lo si vedeva intervenire anche al di fuori dello Stato di residenza.
Alla fine, vinsero i giudici. La “ratio” della loro sentenza, facendo leva sui pregiudizi razziali e ideologici della giuria, definì i due italiani “Consapevoli della propria colpevolezza come assassini e come imboscati.”
Laddove c’è una manifestazione di protesta, o la ricerca della verità, lì c’è anche un italiano di Bagnoli Irpino.
Era soprannominato come un tocco di tamburino di latta: “Tattà”, di cui Aniello Di Capua, spirito libero e indipendente, andava fiero.
Emigrato negli States all’alba del 20° secolo, Aniello di Capua, appunto, affrontò le insidie dell’Atlantico a bordo della motonave “Aquitania”, specialista in traversate oceaniche. Benché falegname di mestiere, volle tentare anche lui la via dell’emigrazione per fini economici e, così, verso la metà della primavera del 1919, quando i cannoni della Grande Guerra erano stati finalmente silenziati e in piena pandemia della “febbre spagnola” che, come adesso col “covid19”, si nutriva di milioni di vite umane, fece il suo ingresso ad Ellis Island (altrimenti detta: l’Isola delle Lacrime) e disgustosamente smistato, poi, come un animale, con il suo mesto bagaglio cintato di fune stopposa, al Centro Immigrazione, per visita medica ed altri controlli. Il suo primo impatto negativo con l’America lo ebbe prima dello sbarco nello interfacciarsi, nella Baia di Manhattan, con il volto ingrugnito della statua della Libertà, dono della bontà francese agli amici americani in occasione del Centenario dell’Indipendenza dell’America nel 1776, che certamente non è quello della Gioconda, sereno, che invita a sorridere. Non parliamo, poi, della cazzottatura cui fu obbligato ad esibirsi, senza successo, quando fu costretto a spogliarsi per una doccia igienizzante, con quei quattro stronzi schifati anche da Toro Seduto, che “scarrubano” nelle piazze le statue di Colombo, portatore della loro attuale civiltà.
“Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America”.
Aniello, negli anni della sua permanenza negli States, non riuscì mai a chetare la sua indole battagliera. Fin dall’arrivo, s’immerse decisamente in manifestazioni operaie, attraverso le quali i lavoratori chiedevano salari più alti e migliori condizioni di lavoro. A causa di queste attività, fu preso di mira dalle autorità locali quale organizzatore di scioperi, agitatore politico e, naturalmente, come militante radicale. Ciò, accadeva proprio nel momento clou in cui le autorità promossero una caccia isterica ai nostri migranti, ai “rossi” e agli anarchici presenti sul territorio.
Dopo la morte di Sacchi e Vanzetti, il nostro Tattà, il 3 ottobre 1927, s’impegolò a Chicago in una corposa dimostrazione di protesta formata da oltre un centinaio di migliaia di lavoratori che si scontrarono violentemente con gli agenti di polizia. In chiusura, tra gli arrestati c’era anche lui. Anzi, soprattutto Lui.
Il ritorno nel suo paese nativo lo ha visto più volte impegnato in piccole, pacifiche, adunate partitiche. Lo ricordo con simpatia, quasi con commozione, direi, quando si portava per le strade dell’abitato, a bordo di una probabile automobile munita di altoparlante, per invitare, al suono dell’Inno dei Lavoratori, la cittadinanza a presenziare al comizio dell’Avv. Quagliariello.
Sono convinto che, astraendo, non considerando la pregnanza e la profondità della vera fede di Aniello, il buon Dio si serva del suo carisma, e della sua empatia, per pacificare le anime che anche nell’aldilà creino scompiglio.
È un invito a sorridere. Ora come ora, ne abbiamo bisogno tutti.
Antonio Cella
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